GUIDA UTILE La repressione dei gay in Cecenia

di Redazione-Team |

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GUIDA UTILE La repressione dei gay in Cecenia Bufale.net

Non esistono gay in Cecenia. Qualora vi fossero, verrebbero spediti dalle famiglie in luoghi dai quali non esiste ritorno.

Alvi Karimov,
portavoce del Primo Ministro Ceceno Ramzan Kadyrov

Una Toyota Camry nera si accosta all’abitazione. Si aprono le portiere e alcuni uomini con la divisa della Squadra Speciale di Reazione Rapida Terek prelevano un uomo. A suo carico esistono sospetti di orientamento omosessuale con prove fornite dalla sua corrispondenza sul social network VKontakte. No, in Cecenia non possono esistere i gay, perché chi rispetta le tradizioni e la cultura del Paese si farebbe carico di dare loro la caccia. Lo dice Kheda Saratova, membro del Consiglio per i Diritti Umani ceceno. Diritti umani messi in serio pericolo dall’esistenza di un mondo omosessuale, a quanto pare. Per questo si dà loro la caccia. Ramzan Kadyrov è il Primo Ministro e parla attraverso il suo portavoce Alvi Karimov. Non esiste un pericolo gay, in Cecenia. Dicono. Qualora vi fosse, le famiglie stesse darebbero un primo contributo alla lotta per la sessualità pura.

Ramzan Kadyrov

L’inchiesta di Novaya Gazeta

Esistono due ondate di repressione. La prima nasce alla fine di Febbraio. Un uomo viene fermato in stato di alterazione da sostanze stupefacenti, sotto l’effetto del farmaco Lyrica – proibito in Cecenia – e in possesso di materiale esplicito nel suo cellulare: immagini e video di natura omosessuale. Al centro del mirino finisce così la sua rubrica, che rivela decine di contatti di persone omosessuali locali. Scattano così gli arresti.

La seconda ondata arriva con le richieste di autorizzazione per il Gay Pride, inoltrate dal progetto GayRussia.ru in quattro città del Caucaso con una petizione online. Sono i primi giorni di Marzo. Le violente reazioni fanno partire una nuova serie di arresti e rappresaglie.

Il periodico russo Novaya Gazeta ha portato alla luce la grave realtà con un’inchiesta pubblicata il 5 Aprile 2017, condotta da Elena Milashina. Vengono riportate due testimonianze e si parla di una prigione ricavata da edifici che fino al 2000 ospitavano il Comando Militare. In via Kadyrova 996, ad Argun, sorge una prigione detentiva per persone omosessuali o sospette tali, una delle tante in Cecenia. 

Se da una parte esiste un mondo omosessuale marchiato a fuoco come minaccia da un Governo che sbaglia intenzionalmente e consapevolmente, dall’altra c’è un mondo che tenta il silenzio. Non è tutto, perché è un triste inizio. Di fronte all’inchiesta documentata di Novaya Gazeta, il portavoce di Ramzan Kadyrov risponde parlando di bugie, disinformazione e addirittura di un pesce d’Aprile mal riuscito. Adam Šachidov, consigliere di Kadyrov per gli affari religiosi, ha condannato Novaya Gazeta per calunnie contro l’intera nazione. Il colpo basso arriva dal Consiglio dei Giornalisti della Cecenia, che propone di non considerare più come giornalisti i collaboratori del periodico russo.

Buona parte delle informazioni arrivano a Novaya Gazeta da fonti interne alle forze dell’ordine. Altre fonti sono protette dall’anonimato secondo un protocollo di sicurezza elaborato in accordo con la rete LGBT russa. Una di queste ha fornito alla redazione un’immagine che raffigura Ajub KataevMagomed “Lord” Daubov, rispettivamente Capo del Ministero degli Interni della città di Argun e Presidente del Parlamento Ceceno. La stessa foto è stata trovata sul profilo Instagram di Kataev, ed è riportata dalla fonte con la didascalia questi due hanno iniziato a distruggere il primo raduno non tradizionale della città di Argun:

Risalire all’indirizzo della prigione di Argun è stato possibile grazie alle intercettazioni del telefono di Daubov attraverso le stazioni di base degli operatori mobili. Dai tabulati è emerso che il Presidente del Parlamento Ceceno – chiamato confidenzialmente Lord – ha visitato la prigione nei mesi di Febbraio e Marzo. I risultati fornivano l’indirizzo di via Kadyrova 996.

Per porre fine alla folle repressione, Novaya Gazeta intende appellarsi al Procuratore Generale russo J.J. Čajka per portarlo ad obbligare il Presidente Comitato Investigativo della Russia Bastrykin a condurre un’indagine e agire in conformità agli articoli 144 e 145 del Codice Penale della Federazione Russa. Se Čajka porterà avanti tale richiesta, il Comitato Investigativo non potrà tirarsi indietro. Qualora Čajka non dovesse assolvere a tale invito, verrebbe ritenuto colpevole di inazione. L’appello al Procuratore Generale nasce dall’esperienza negativa della redazione con il Comitato Investigativo, che negli anni si è sempre rivelato silente di fronte a qualsiasi richiesta, secondo un sinistro principio di omertà.

Intanto, la Federazione Russa risponde con Dmitry Peskov, portavoce del Presidente Vladimir Putin che dal Cremlino fa sapere che al Governo non sono giunte notizie. Ancora, Peskov consiglia di denunciare le autorità attraverso i canali ufficiali. Il silenzio del Cremlino e la totale assenza di azione vengono sottolineati da Tanya Lokshina, Direttrice di Human Rights Watch.

L’inferno delle prigioni

La rete LGBT russa in concerto con Novaya Gazeta e gli attivisti russi per i diritti umani, intanto, ha attivato una hotline all’indirizzo kavkaz@lgbtnet.org, al quale sono arrivati i primi appelli. Il risultato è un’orchestra di testimonianze. Il periodico russo ne riporta due. Tra testimonianze e appelli pervenuti sulla hotline è stato possibile tracciare un quadro definito della situazione degli omosessuali reclusi e torturati in Cecenia. I detenuti vengono trasferiti negli edifici adibiti a prigioni e vengono rinchiusi in stanze assieme a 30-40 persone. I loro telefoni vengono tenuti accesi e monitorati dalle guardie, per rilevare i loro contatti. Nell’illogicità della repressione, chiunque compaia come contatto nella rubrica di un omosessuale è anch’egli omosessuale. E sì, deve essere catturato.

A ognuno è riservato uno spazio di massimo 3 metri quadri e periodicamente si viene trascinati fuori con la scusa di un interrogatorio. In realtà si viene battuti con una sbarra di polipropilene e torturati con l’elettroshock. Altre volte si viene costretti a sedere su bottiglie. L’obbiettivo è quello di ottenere informazioni su altri contatti omosessuali, che verranno poi prelevati e portati all’interno della prigione. Ogni prigioniero viene definito un cane che non merita di vivere. Negli uffici si consumano interrogatori violenti, umiliazioni e torture. Più volte al giorno e per diversi giorni, settimane e addirittura mesi interminabili.

Accade che i prigionieri vengono ridotti ad uno stato che il Testimone 2 di Novaya Gazeta definisce “animalesco”. Dunque i carcerieri decidono di invitare le famiglie a riprenderseli, ma prima di rivedere i propri cari gli stessi famigliari vengono umiliati separatamente. Ma no, non è così facile e umano uscire dalla prigione per omosessuali. Secondo il Testimone 1 esistono tre modalità: la prima avviene tramite il pagamento di un riscatto, con somme che si aggirano attorno ai 25.000 euro e che vedono famiglie costrette a vendere terreni e abitazioni; la seconda avviene consegnando altra gente da parte degli stessi detenuti secondo un terribile ricambio detentivo; la terza avviene con la semplice restituzione dei detenuti alle famiglie, che nel peggiore dei casi sono composte da membri che rifiutano l’omosessualità del proprio famigliare e che provvederanno loro stesse alla sua reclusione o eliminazione. “Vedetevela voi” dicono i carcerieri al momento del rilascio, confidando nel tanto gettonato delitto d’onore invocato dal portavoce di Ramzan Kadyrov e da Kheda Saratova (Consiglio dei Diritti Umani in Cecenia), utile strumento per la purificazione della sessualità in Cecenia. In un messaggio arrivato alla hotline si legge che un detenuto, riconsegnato al padre e al fratello, è stato condotto dagli stessi in un’auto bianca e mai più tornato a casa.

All’interno delle carceri possono trovarsi uomini di età dai 16 ai 50 anni. Tra di loro vi sono vittime accidentali, catturate seguendo l’istinto della reclusione dei contatti di un detenuto.

La risposta degli attivisti e dell’Europa

Come già precisato, Novaya Gazeta con la rete LGBT russa con sede a San Pietroburgo e con l’ausilio degli attivisti per i diritti umani hanno creato una hotline con l’indirizzo kavkaz@lgbtnet.org. Svetlana Zakharova della rete LGBT russa riferisce al Daily Mail che gli attivisti stanno lavorando per far uscire i detenuti dai “campi”. Sul Guardian e sul New York Times Ekaterina Sokiryanskaya, coordinatrice russa dell’International Crisis Group ed esperta di diritti umani, riferisce di ricevere diverse testimonianze ogni giorno.

A muoversi è anche Amnesty International con una petizione online. Non mancano le denunce raccolte dall’ILGA (International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association), la più importante associazione LGBT europea. Infine, la rete LGBT Russa ha messo a disposizione un numero di telefono per tutte le emergenze. La chiamata è gratuita su tutto il territorio russo.

In Europa, invece, risponde la baronessa Anelay, Ministro degli Affari Esteri in Gran Bretagna. Il 7 Aprile ha rilasciato una dichiarazione nella quale esprime: «Obblighi internazionali sui diritti umani della Russia richiedono che protegga i cittadini che possono essere a rischio di persecuzione. Ci aspettiamo che il governo russo adempia ai propri obblighi a tal fine».

Arrivando in Italia, esiste una lettera presentata dall’associazione radicale Certi Diritti redatta da Leonardo Monaco, segretario dell’associazione, e Yuri Guaiana, responsabile questioni transnazionali. L’appello è rivolto a Federica Mogherini e Angelino Alfano:

Non accennano a fermarsi le notizie che provengono dai media russi di opposizione che sono riusciti ormai a localizzare vere e propri campi di prigionia destinati agli omosessuali, dove uomini e ragazzi sequestrati dai corpi paramilitari subiscono sevizie di ogni tipo. Si parla di oltre 100 persone deportate dalla fine di febbraio e di almeno 3 morti. L’Associazione Radicale Certi Diritti ha seguito la vicenda e ha interpellato Federica Mogherini e Angelino Alfano sollecitandoli a fare in modo che la diplomazia europea non resti con le mani in mano. La necessità di preservare gli equilibri geopolitici con la Russia non insabbi il ricorso storico messo in atto dalle autorità cecene.

Chiediamo il massimo impegno delle istituzioni affinché venga individuata e punita ciascuna violazione dei diritti umani. In particolare facendo pressione sul governo russo affinché dia immediatamente luogo a un’inchiesta sulla detenzione illegale di sospetti omosessuali in Cecenia, attivando tutte le iniziative urgenti necessarie per l’invio di osservatori internazionali nella regione e concedendo immediatamente asilo ai sopravvissuti e alle vittime potenziali di questa follia.

Esiste dunque una realtà di repressione violenta. Nella Cecenia del 2017 l’omosessualità è un crimine da estirpare. Lo ha deciso il Primo Ministro, lo riferisce il suo portavoce, lo sottolinea il Consiglio dei Diritti Umani ceceno. La Federazione Russa quasi ignora o volge lo sguardo altrove, con la leggerezza di un invito a denunciare i crimini delle autorità attraverso i canali ufficiali.

Quando accade il peggio, il peggio si nega. È comodo.

A tentare di salvare le vite pensano i redattori di Novaya Gazeta, ora tacciati di disinformazione. Ci pensano gli attivisti della rete LGBT di San Pietroburgo, nella veste di demoni che difendono altri demoni. Ci pensa Amnesty International. Arrivano appelli dall’Europa e vengono rivolti al Cremlino. Un Cremlino che dovrebbe avere un certo potere sulla Repubblica Cecena, ma che – a detta delle fonti riportate – pare rispettarla eccessivamente, se non addirittura temerla.

Proprio in queste ore ci si ritrova, forse, a fare una correzione. L’inchiesta di Novaya Gazeta parlava di tre morti e molto probabilmente di un quarto. All’Huffington Post troviamo nuove dichiarazioni di Elena Milashina: 4 sono i morti confermati. 50 sono quelli stimati dai servizi segreti ceceni in contatto con la redazione della Gazeta. Le prigioni segrete ora sono cinque.

Numeri e parole che fanno dell’emesi una prima manifestazione di dissenso.

Fonti

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