La foto di guerra che nessuno voleva pubblicare: i media e il feticisimo dell’orrore

di Bufale.net Team |

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La foto di guerra che nessuno voleva pubblicare: i media e il feticisimo dell’orrore Bufale.net

L’editoriale di oggi è un po’ diverso dal solito, parla della foto di guerra che nessuno voleva pubblicare.

Siamo in un’epoca in cui “se non è su Internet” non è vero, e se è su Internet si può credere anche agli stregoni ucraini che combattono gli sciamani russi e improbabili pasionarie insegnanti di chitarra porta a porta col vizio di non esistere diventate giornaliste di punta della Russia di Putin.

Tutto quello che è sui social esiste a prescindere, tutto quello che per qualsiasi motivo, fosse anche la carità umana e la pietà verso i morti, smette di esistere.

E quando arriva, come le foto satellitari dei cadaveri di Bucha, ci sarà sempre chi è pronto a negare.

Ma facciamo ora un passo indietro, e torniamo alla Guerra in Iraq del 1991.

La foto di guerra che nessuno voleva pubblicare: i media e l’orrore

Ovviamente parliamo di immagini forti: se volete vedere la foto per un pruriginoso, morboso istinto che vi porta a cercare un’immagine così forte da essere “impubblicabile”, potete leggere l’editoriale di Torie Rose DeGhett nel 2014.

Editoriale che ci riporta indietro fino al 28 febbraio 1991, quando il giornalista Kenneth Jarecke si imbattè in uno scheletro.

Direte voi, uno scheletro è una cosa spaventosa ovviamente, ma non così spaventosa. Ma non si trattava di uno scheletro come quelli che avrete visto nei libri di scuola, al luna park o in qualche laboratorio.

Un tempo quello scheletro era stato un soldato Iracheno ignoto. Forse un fedelissimo di Saddam, forse un poveraccio andato in guerra per ramazzare qualche soldo, forse entrambe le cose.

Adesso era uno scheletro con attaccati dei pezzi di carne arsa e bruciata, una figura a metà tra lo zombie dei film dell’orrore e il cadavere a Pompei, eternamente congelato nell’atto di scappare dal carro armato diventato la sua tomba, che sembrava fissare il fotografo con un ghigno senza labbra e le orbite oculari svuotate.

Sovente, per rispetto ad una tragedia, le immagini più crudeli e truculente vengono omesse. La De Ghett ricorda molti eventi di quegli anni dove alla stampa fu chiesto di astenersi dal feticismo dell’orrore.

Possiamo aggiungerne molti noi: esattamente un anno fa a seguito della tragedia del Mottarone la Procura di Verbania dovette attivarsi perché le immagini del tragico schianto non fossero divulgate dalla stampa, essendo oggetto di indagine.

Il crollo del Ponte di Genova ci lasciò una serie di domande su quanto fosse giusto esibire le vittime di quella tragedia e quanto fosse necessario dare loro pietà.

La guerra in Ucraina ogni giorno ci lascia un tragico bagaglio di immagini forti e un ancor più turpe mercimonio di negazionisti che rivendicano fieri il diritto di avere tra le mani foto di sangue e cadaveri, ispezionandole con brutale crudeltà alla ricerca di appigli per negare.

In questo caso, la foto del soldato iracheno morto, cadavere dalle carni liquefatte e lo scheletro ancora eretto, fu pubblicata solo molti mesi dopo, e inizialmente solo in Europa, dove fu accolta da controversie tra il diritto ad informare e la pietà per un corpo distrutto.

La genesi della foto

Kenneth Jarecke, il fotografo, non avrebbe voluto neppure scattarla quella foto. Anzi, era in procinto di chiudere per sempre con la carriera di fotografo di guerra.

Ma dal Golfo si rese conto venivano foto estremamente “sanitizzate”. Foto di una guerra che non era presentata come tale. Foto senza empatia: paesaggi, riprese della devastazione da così lontano da cancellarla… per Jarecke questo era un vuoto. Un vuoto da colmare con l’empatia.

Quel febbraio, ritraendo l’orrore dei campi di battaglia da vicino, il terrificante scatto.

Anche in quel momento, pietà e cronaca si incontrarono. Qualcuno chiese a Jarecke perché fotografare un cadavere, perché esibire un corpo disfatto all’opinione pubblica.

“Perché se non scatterò foto come queste, mia madre continuerà a pensare che la guerra sia come nei film”

La risposta fu più che sufficiente ad ottenere che nessuno fermasse Jarecke, che la foto fosse scattata, che fosse trasmessa in madre Patria e, arrivata alla stampa, cominciasse la battaglia per la sua pubblicazione.

La battaglia per la pubblicazione

Associated Press tenne lontana la foto dalle pubblicazioni per un lungo periodo, finché alla fine non rientrò in circolazione passando per l’Europa.

Le motivazioni furono svariate: l’immagine era troppo cruda, tropo spaventosa.

Ma anche troppo remota dall’immagine di un conflitto presentato come “pulito e chirurgico”. Quel cadavere orrendamente mutilato era prova della crudeltà della guerra.

Ma anche un cadavere orrendamente mutilato. Jarecke non potè che dire “se siete abbastanza adulti per andare in guerra, lo siete per guardare quella foto”.

Possiamo dire che qualcuno aveva ragione? Possiamo dire che qualcuno aveva torto? L’amore per la verità ci dice che quella foto meritava pubblicazione e diffusione.

La cronaca recente ci dice che oggi l’avremmo vista ovunque. Ma la cronaca recente ci dice che quella foto oggi avrebbe fatto la fine delle foto dei morti di Bucha, morboso feticcio tra le mani di chi sarebbe pronto a dissacrare quel cadavere anche più della guerra.

La cronaca di oggi ci ricorda che la “guerra ibrida” è una realtà. E che si muore sia quando quando vieni ucciso, sia quando il tuo ricordo viene profanato, offendendo la tua memoria e quella di chi ha cercato di salvare almeno il ricordo della tua morte su pellicola.

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