La storia del batterio che sfidò la chimica (e perse)
Era il mese di dicembre 2010 quando la NASA convocò una conferenza stampa misteriosa, annunciata con toni che lasciavano presagire qualcosa di epocale.
In rete si diffuse rapidamente il sospetto che fosse stato trovato un segnale di vita extraterrestre. L’attenzione del mondo scientifico e mediatico si concentrò su un piccolo batterio, apparentemente insignificante, che stava per scuotere le certezze della biologia: il GFAJ-1. Il nome, che in realtà era una battuta interna – “Give Felisa A Job”, un omaggio ironico alla ricercatrice Felisa Wolfe-Simon – non lasciava intuire nulla del clamore che avrebbe generato.
Eppure, secondo gli studi del suo team, questo organismo non solo sopravviveva nel lago Mono, in California, un ambiente saturo di sale e arsenico, ma sembrava integrare l’arsenico stesso nel proprio DNA, sostituendolo al fosforo. Se fosse stato vero, avremmo avuto davanti una forma di vita radicalmente diversa da tutte quelle conosciute. Un segnale che la biologia poteva essere molto più flessibile di quanto immaginassimo, con implicazioni enormi per la ricerca di vita nello spazio.

Felisa Wolfe-Simon parla durante la conferenza stampa presso la sede centrale della NASA il 2 dicembre 2010 a Washington, DC. (Credits: Mark Wilson/Getty Images)
Dal trionfo mediatico alla caduta scientifica
Per qualche mese il GFAJ-1 fu la vera e propria star dell’astrobiologia. La notizia che un batterio potesse riscrivere le regole della chimica della vita portò alcuni a ipotizzare che mondi ricchi di arsenico (un elemento considerato tossico per la quasi totalità degli organismi) potessero ospitare ecosistemi attivi. Ma la comunità scientifica non tardò a sollevare dubbi. Laboratori indipendenti replicarono l’esperimento, senza trovare alcuna traccia di arsenico nel DNA del batterio.
Quello che emerse fu un quadro decisamente meno rivoluzionario: GFAJ-1 era semplicemente un estremofilo, capace di resistere a condizioni ostili, ma dipendente dal fosforo come qualsiasi altra forma di vita terrestre. Negli anni successivi, Science (la rivista che aveva pubblicato lo studio) aggiunse progressivamente note di cautela, fino ad arrivare, lo scorso luglio 2025, alla decisione definitiva: l’articolo è stato ritirato ufficialmente, non per frode, ma per gravi errori metodologici. Una scelta resa possibile dal nuovo standard editoriale, che consente la ritrattazione anche in assenza di dolo.
Perché il caso GFAJ-1 è ancora importante
La vicenda, pur chiudendosi con una smentita, ha avuto sicuramente un impatto culturale e scientifico notevole. Ha infatti spinto a ridefinire i limiti di ciò che consideriamo “vita” e a interrogarci su quanto siamo condizionati dall’unico esempio che conosciamo, cioè la vita sulla Terra. Sappiamo che esistono organismi che vivono senza ossigeno, altri per cui l’ossigeno è un veleno, e microbi capaci di usare elementi tossici per altre specie. Tuttavia, finora non abbiamo trovato alcuna prova di esseri viventi che sostituiscano stabilmente il fosforo con l’arsenico nel loro materiale genetico. L’astrobiologia si muove in un equilibrio delicato tra curiosità e realismo.
È possibile che, altrove nell’universo, esistano forme di vita basate su molecole genetiche diverse dal DNA, nate in ambienti lontanissimi dalle condizioni terrestri. La chimica però impone vincoli molto rigidi. Alcune ipotesi popolari nella fantascienza, come ad esempio la vita basata sul silicio, sono chimicamente improbabili in natura. Ciò non significa che non si possano immaginare scenari alternativi. La tecnologia umana potrebbe creare in laboratorio sistemi autoreplicanti artificiali, macchine molecolari capaci di evolversi, ponendo questioni etiche e filosofiche su cosa definisca davvero un essere vivente.
Le vere frontiere della ricerca oggi
Al di là dei clamori mediatici, la ricerca di vita extraterrestre si concentra su obiettivi concreti. Mondi come Europa, Encelado o Mimas, con oceani nascosti sotto spesse calotte di ghiaccio, sono tra i luoghi più promettenti per trovare microbi extraterrestri. Ambienti che alternano fasi di congelamento e scongelamento potrebbero favorire la comparsa di forme di vita elementari, come forse accadde anche sulla Terra primordiale. Ma la scienza deve fare i conti anche con le decisioni politiche. Tagli ai fondi e priorità mutevoli mettono a rischio molte missioni, come quella del ritorno di campioni marziani raccolti da Perseverance che, se mai verranno studiati, potrebbero offrire indizi decisivi sull’esistenza di vita passata o presente su Marte.

Immagine a colori reali della luna di Giove Europa, scattata il 29 settembre 2022 dalla sonda Juno. Il satellite potrebbe ospitare forme di vita elementari. (Credits: NASA/JPL-Caltech/SwRI/MSSS/Kevin M. Gill)
Una lezione di metodo scientifico
La parabola di GFAJ-1 è una chiara dimostrazione di come la scienza non sia un insieme di verità immutabili, ma un processo in continuo perfezionamento. Un’ipotesi entusiasmante può catturare l’attenzione di tutti, ma senza prove solide e replicabili rimane solo una storia affascinante. Il metodo scientifico ha il compito di filtrare l’entusiasmo attraverso la verifica, anche quando questo significa smentire ciò che, per un momento, ci aveva fatto sognare mondi pieni di vita aliena a base di arsenico.
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