Oggi ci dedicheremo tanto per cambiare al mondo dell’ucronia. Computer che forse avrebbero potuto esistere, forse mai, retrocomputer e retroconsole che avrebbero potuto cambiare il destino del retro.
Di alcuni ne abbiamo anche parlato, di altri ne daremo qualche dettaglio ulteriore. Ma proveremo a vederla da un altro punto di vista, immaginando gli effetti della loro esistenza del mondo.
No, non è un errore. Ne abbiamo parlato brevissimamente durante il pezzo in cui abbiamo parlato del VIC-20.
VIC-20 la cui ispirazione abbiamo visto era fortemente giapponese, e che in Giappone ebbe un successore, la MAX Machine, oggi Santo Graal dei collezionisti.
MAX Machine fu costruito intorno alle due più grandi invenzioni di MOS degli anni immediatamente successivi alla nascita del VIC-20, ovvero il SID, chip audio a tre voci più rumore bianco, un vero e proprio sintentizzatore su chip e un rivoluzionario chip video chiamato il VIC-II, erede del VIC usato nel VIC-20.
Articolo sul VIC-10, fonte Vic-20.it
Max Machine era di fatto una console da videogames più che un computer: certo, aveva una scomodissima tastiera a membrane con ideogrammi giapponesi e caratteri occidentali, ma era privo di porte seriali (niente floppy per MAX, sostanzialmente), privo di BASIC precaricato (ma potevi comprarne una cartuccia) e limitato da soli 2Kb di RAM utilizzabili lato utente e solo uscita video antenna con un jack cuffia 1/8″ per l’audio (che un utente determinato avrebbe potuto modificare per portare una uscita video composita con un cavo adattatore autocostruito).
MAX Machine tradiva la sua vocazione ludica: come abbiamo visto, non aveva supporto floppy, user port o ogni genere di accessorio per cui amiamo il Commodore 64, salvo due porte joystick, una per lato, e supporto per il Datassette però mortificato dall’esigua RAM di sistema.
Max Machine, il prodotto che Commodore aveva in mente di vendere in Occidente
Poteva caricare giochi su cartuccia, dato che come abbbiamo visto col VIC20, in Giappone la HAL Laboratory di un certo Satou Iwata, prolifico programmatore che si “era fatto le ossa” comprando un PET con soldi in prestito e i regali di laurea e che in futuro sarebbe diventato l’amatissimo “CEO Videogiocatore” di Nintendo, nonché una delle menti dietro il fenomeno planetario che dieci anni dopo sarebbero stati i Pokémon era pronta a fornire giochi per le piattaforme Commodore.
L’idea originale di Commodore era quindi portare la MAX Machine in Occidente, col nome di VIC-10 o di UltiMAX (come abbiamo visto, Commodore però favoriva le designazioni numeriche) assieme al Commodore 64, inizialmente chiamato “VIC-30”.
Un assoluto e tragicomico bagno di sangue.
Per capire il disastro che sarebbe stato portare l’UltiMAX in Occidente, bisogna tenere conto di due fattori. L’Atari Game Crash, ovvero il complesso insieme di fattori che aveva portato Atari fuori dal mercato e l’Atari 2600 a finire sorpassato dal Commodore 64, dal NES e dalle console di Terza Generazione, aveva di fatto salato il territorio.
Nintendo stessa portò il NES in Occidente solo nel 1986 e solo dopo un makeover estremo perché somigliasse ad un moderno elettrodomestico, e arrivasse con moderni cavalli di Troia elettronici come R.O.B. per riabilitare l’immagine del videogame.
Nell’idea di Commodore avremmo quindi avuto UltiMAX, poco più che una console, venduto a 200$ circa, piazzato accanto al Commodore 64, vero e proprio home computer in grado di far girare tutte le cartucce dell’UltiMAX, più floppy e cassette con giochi migliori in quanto in grado di accedere a 38kb di RAM dei 64kb forniti, più la possibilità di programmare col BASIC incorporato e usare la User Port.
Il GS, la prova del fallimento postumo del progetto UltiMAX
Delle due l’una: il Commodore 64 avrebbe divorato UltiMAX, venendo percepito come un prodotto completo rispetto a quello castrato o, come accadde col Commodore 128, i produttori di videogiochi si sarebbe focalizzati su UltiMAX/VIC-10, di fatto affossando il Commodore 64 per mancanza di giochi.
Una dimostrazione plastica del concetto si ebbe quando Commodore nel 1990 produsse il Commodore 64GS, versione “console” del Commodore 64 conn le porte seriali, user e cassette murate in un case di plastica con slot per cartucce.
In breve tempo l’utente medio realizzò che avrebbe potuto comprare un Commodore 64C e giocare ai titoli del GS e avere un vero home computer.
MAX Machine non divenne mai UltiMAX o VIC-10, non arrivò mai in Occidente, e per fortuna ecco come è andata.
Vaporware è qualcosa che semplicemente non si è mai manifestato. C’è l’hardware, c’è il software e poi il vaporware. Ovvero il ve lo giuro, lo faremo.
Al CES del 1983 Ultravision Inc., una delle ditte che tirarono su qualche soldo quando Atari perse per via giudiziale il diritto di escludere altri produttori di giochi dalla sua console, propose Ultravision.
Qualcosa che era una TV Portatile, una console a colori e un computer.
Un goffo portabile con tastiera e joystick che nei sogni della compagnia avresti portato a spasso alimentandolo con l’accendisigari della macchina o un alimentatore esterno per goderti un computer basato sullo Z80 e giochi proprietari o compatibili, mediante accessori, con l’Atari VCS e il ColecoVision, da cui prese il nome.
Soddisfatti e rimborsati o soddisfatti e mazziati?
64kb di Ram e 595 dollari di prezzo lo avrebbero messo in competizione diretta con titani come il Commodore 64. Se fosse esistito.
Ultravision era l’equivalente di qui kickstarter farlocchi dove se tutto va bene ti ridanno i soldi indietro e una forte delusione.
I pochi giochi presentati al lancio sembravano screen dei giochi per Atari di Ultravision Inc. e forse lo erano. Ultravision Inc. non trovò mai i soldi per lanciare l’Ultravision, e finì lì.
In questo caso particolare, una pioggia di meteoriti che avesse portato all’estinzione il genere umano sostituendolo con delle blatte parlanti sarebbe stata un evento assai più probaibile.
Prototipo di Ultravision, By SupremoPepe – Own work, CC0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=154478212
Nel 1983 una TV portatile con dentro uno Zilog 80 compatibile con le maggiori console di seconda generazione dell’epoca era decisamente sospetta. E così fu.
Z-Machine fu un computer teorico, creato da Infocom con l’unico e apposito scopo di portare Zork e le loro avventure testuali sul maggior numero di computer possibili.
Effettuare il porting di un videogioco, ovvero scriverlo e riscriverlo per diversi computer, non è opera da poco. Infocom, che partì povera di mezzi, decise di tagliare il nodo gordiano creando un computer virtuale, la Z-Machine, su cui scrivere ogni gioco.
Esempio di Z-Machine
Di fatto ogni avventura testuale Infocom è stata un emulatore che carica un gioco scritto per Z-Machine sul computer di riferimento, rendendo possibile a generazioni di creativi di mettersi sulle tracce dei loro predecessori illustri creando facilmente molteplici avventure testuali in grado di funzionare su ogni computer e smartphone esistente.
A Febbraio qualcuno provò a lanciare un progetto di Crowdfunding per creare un tablet altamente specializzato creato per l’unico scopo di far girare avventure di testo. Una Z-Machine fisica, se volete pensarla così.
Il fallimento di Ink Console, la cosa più simile ad una Z-Machine fisica
Ovviamente fu un fallimento atroce, e il progetto risulta ad oggi abbandonato. Semplicemente le cose esistono per una ragione: possiamo portare Z-Machine su computer e cellulari, non c’è bisogno di pagare un tablet e-ink apposta.
Anche di questo computer abbiamo già parlato in lungo e in largo.
Nelle intenzioni di Commodore, la Z-Machine (il nome echeggia il precedente, ma non c’è correlazione), aka il Commodore 900, avrebbe dovuto e potuto essere il primo vero computer a 16 bit di Commodore, con processore Zilog 8001, un mega di RAM raddoppiabile su richiesta e due modalità video: una con blitter ad alta risoluzione ed una per il testo ad 80 caratteri, sistema operativo Coherent (basato su Unix) e disponibile in una configurazione “elevata” per gli uffici e modesta per le case.
Vedrete nell’articolo adatto perché molti pezzi del C900 vi ricordano qualcosa, per non tediare ulteriormente il lettore passeremo immediatamente al finale della storia.
Il Commodore 900: il computer di cui non avete mai sentito parlare (foto Ode2commies)
Il Commodore 900 fu abbandonato: alcune delle sue parti, come il VDC, finirono nel Commodore 128, il resto in un progetto che Commodore aveva comprato dai suoi proprietari per avere un Computer a 16bit.
Ovviamente stiamo parlando dell’Amiga.
Il Commodore 900 fu strangolato in culla e la sua eredità divisa tra il Commodore 128, uscito in fretta e furia, e l’Amiga.
Coherent era un sistema operativo assai limitato, privo dello Stack TCP/IP, mandato allo sbaraglio in un mondo dove la penetrazione dei PC IBM Compatibili negli uffici era già una realtà.
Col C900, Commodore non avrebe avuto il bisogno di cercare di acquisire l’Amiga. Senza tale bisogno, probabilmente l’Atari di Tramiel avrebbe preso il controllo dell’Amiga stesso (c’erano già progetti per inserirlo nella lineup di Atari), e ancora una volta, Commodore avrebbe anticipato un passo falso che l’avrebbe condotta ad un prematuro declino.
Dubito il C900 avrebbe potuto salvare Commodore, anzi.
Torniamo ancora in casa Commodore: sempre nel 1987 cominciò il progetto per un nuovo successore del Commodore 128, strangolato in culla dal Commodore 64.
“Se non puoi batterli, unisciti a loro”: Fred Bowen, Victor Andrade, William Gardei e Paul Lassa furono incaricati di dare un successore al Commodore 64, che ne fosse sostituto completamente retrocompatibile.
Ovviamente, il nuovo prodotto avrebbe dovuto liberare Commodore dalla codipendenza dal suo prodotto di punta, diventato fonte primaria di guadagno e consentire di guidare gli utenti verso la novità.
Arrivati alla data del 1990, avevamo già protipi col processore 4510 (evoluzione a 3Mhz del caro vecchio 6502), doppio SID, il VIC-III, discendente del VIC-II, 128Kb di RAM espandibili (fino ad un mega), le stesse porte del 128 più un connettore specifico di espansione e un floppy 1581 incorporato.
Il Commodore 65
I pochi prototipi rimasti divennero oggetto di disperato bagarinaggio a prezzi da rapina.
L’abbiamo visto: una riproduzione in FPGA del 64, il “MEGA 65” è finalmente arrivata sugli scaffali intorno al 2022 ed è ancora in vendita.
Fosse arrivato prima? Il motivo per cui il Commodore 65 fu abbandonato è che il tracollo del GS aveva convinto Commodore che arrivati alla boa degli anni ’90 l’era degli otto bit era finita e solo il Commodore 64 perdurava. Alla fine, anche il 65 sarebbe arrivato troppo tardi per fare troppo poco, insidiato dall’Amiga e dal Commodore 64 ancora su scaffali e scrivanie.
Nel 1985 Nolan Bushnell, brillante programmatore ex Atari, ebbe una pazza idea: una console che usasse le videocassette VHS per stivare audio, video e programmi. Al contrario del CD, un nastro è lineare, e avrebbe costretto il giocatore ad andare avanti e indietro col telecomando all’uso delle care vecchie cassette dei Commodore.
Ma Bushnell, Wozniak (quel Wozniak) e altri programmatori di Axlon, ditta fondata da Bushnell, pensarono di poter risolvere il problema con un uso astuto della memoria tampone e del framerate.
Ricostruzione del Control-Vision
Un ColecoVision fu usato come protipo, ed in un’era di scarsa fedeltà grafica, avere giochi che fossero veri film interattivi sembrava davvero una cosa grandissima: il trucco era ben nascosto nei rudimenti della programmazione. Lo stesso spezzone di nastro avrebbe contenuto diverse scene, minimizzando il ricorso al riavvolgimento: la console avrebbe quindi caricato in memoria uno spezzone audiovideo con dati, pescato dalla memoria tampone le parti che servivano e proiettato il gioco.
Si ipotizzi ad esempio una scena in cui il protagonista combatte il cattivo, che chiameremo (A) e una scena in cui fugge, che chiameremo (B). Dimezzanndo il framerate la VHS poteva dare in pasto alla console uno spezzone ABABABABABABABAB e il Control Vision avrebbe saputo ricostruire A e B: potevi registrare diverse scene in determinati modi su una VHS, e avere il tuo film/videogioco avventura, ancorché con un framerate ridotto rispetto a un film interattivo moderno..
Tra i titoli di lancio avremmo avuto Night Trap, pecoreccia avventura a base di giovani donne discinte da salvare da vampiri (ritenuti una valida alternativa ai ninja rapinatori e non scherzo…) e altri pericoli che le vedono vagare per l’ambientazione di gioco mezze nude, interpretate dalle “fidanzatine di America” Dana Plato (segretamente una donna poliziotto e spia di SCAT, involontario gioco di parole tra Special/SEGA Control Attack Team e la pratica sessuale che vede l’uso di fluidi corporei vari come mezzo di eccitazione…) e Debra Parks.
Come tutti sanno, i vampiri ninja amano catturare belle donne in negligee ghermendole con un cattura-uomini con collare…
Hasbro tirò la spina anche a questo progetto, e Night Trap apparirà su SEGA CD e per soli undici euro su Nintendo Switch (nonostante Nintendo avesse inizialmente giurato di non volere un simile titolo sulle sue console).
Notare, non fu Night Trap, e neppure il concetto di film interattivo a decretare la fine del progetto. Furono i costi. Tom Zito, ora CEO di Digital Pictures, aveva tirato dentro il progetto Hasbro, il produttore di giochi, proprio perché Control-Video avrebbe richiesto una vagonata di soldi.
Denaro per lo sviluppo, denaro per girare i film intrattivi, denaro per venderlo. Hasbro si rese conto infine che anche nella più ottimistica previsione di bilancio, Control-Vision avrebbe avuto un prezzo superiore al NES.
E nonostante il concetto rivoluzionario di film interattivo, il pubblico si sarebbe orientato verso la console col rapporto qualità prezzo superiore
Night Trap è il motivo per cui abbiamo le classificazioni per età dei giochi (oggi è un PEGI 12, per capirci, alquanto ottimisticamente, il concetto stesso di ERSB fu creato quando finalmente Night Trap fu rilasciato per SEGA CD): uno scandalo simile negli anni ’80 sarebbe stato una mazzata fenomenale per il settore, anche peggiore della fama o infamia di “Custer’s Revenge” per Atari.
A parte il singolo gioco, Control-Vision sarebbe stato senz’altro un prodotto innovativo. Certo, c’erano già state in passato “versioni retro” di giocattoli come il robot 2XL che anziché usare registrazioni digitali usavano semplici cassette a 8 tracce e riuscivano a simulare una discusssione ed un quiz, e in fondo il Control-Vision era un Robot 2XL con passaggi extra.
Ma nessun ragazzino l’avrebbe notato, e si sarebbe meravigliato nel vedere “un film interattivo in cui tu sceglievi le scene” (e potevi vedere Debra Parks in negligeé fuggire dai vampiri affamati e arrapati).
E forse Hasbro aveva ragione: un NES costava meno, i giochi richiedevano meno sviluppo e quindi costavano meno, e avrebbe mangiato il Control-Vision vivo più velocemente che un Auger (i vampiri ninja che nel gioco hanno bisogno di suggere il sangue delle belle donne usando una cannuccia con trivella legata ad un collare sadomaso, e non scherzo…) intento a ciucciarsi Debra Parks.
Il NES lo conosciamo tutti. Lo conosciamo benissimo.
Quello che pochi conoscono è AVS, il “NES di Atari”.
Esattamente.
Il Nintendo AVS, il NES che non fu
Al CES del 1985 fu presentata una variante del futuro NES, un Famicom con tastiera, penna ottica e joypad wireless, dall’iconico colore nero. AVS sparì per sempre col tracollo di Atari, e l’anno dopo fu sostituito dal NES, con una serie di Brochure a testimoniare i passaggi intermedi (tra cui un ROB in posa coi pad che furono di AVS.
Nintendo non ama giocare da sola. Lo scarno materiale promozionale su AVS di fatto partiva dalla consapevolezza che il mercato del videogioco era morto e solo ROB avrebbe potuto salvarlo.
E sarebbe stato senz’altro più difficile presentandosi a braccetto con quella Atari che complice il citato Game Crash era ormai bollata come produttore di console con giochi di scarsa qualità.
ROB nacque come accessorio proprio in quel periodo
Inoltre la manovra avrebbe impedito ad Henk Rogers il colpo di teatro che gli consentì di strappare per Pajitnov e la futura The Tetris Company i diritti dell’omonimo gioco: Elorg aveva ceduto i diritti per i computer, FamiCom e NES non erano computer e quindi Tetris era un’esclusiva al lancio Nintendo.
Un po’ difficile strappare dei diritti ad Atari-Tengen in un mondo ucronico in cui hai lanciato un vero e proprio computer (o almeno una console con tastiera e vocazione da Computer) con Atari.
Una pagina di ucronie descrive, in un mondo dove l’AVS avesse vinto sul NES, un “add on per giocare i giochi Atari” sulla stessa console. Seriamente? In casa Nintendo? Giochi di seconda generazione tra cui Custer’s Revenge su una console Nintendo?
Non in questo universo.
Nel 1995 SEGA cercò la domanda ad una risposta che pochi si erano fatti, ovvero e se provassimo a vendere una console con dentro un Mega Drive e il SEGA 32X?
Sostanzialente proponendo di vendre una delle più amate console della casa con uno degli accessori meno apprezzati, un modulo 3D con pochi giochi al lancio, di cui alcuni richiedevano anche il MegaCD.
Come vendere un accessorio che nessuno vuole? Rendendolo integrato
Il concetto fu quello di legare un accessorio versatile ma poco accettato dal mercato e poco sfruttato alla riedizione di una console, fenomeno tipico di SEGA e Nintendo per cui le “oldgen” vengono ridisegnate per uscire come alternative economiche alle nextgen.
SEGA decise, semplicemente, di non disturbarsi e lasciare il Mega Drive così come era, passando al Saturn, nuova console e successo in Madrepatria, con una nuova buffa mascotte, Segata Sanshiro.
Nulla di più che un Mega Drive pluriaccessoriato in un’epoca in cui davvero, bastava la forma base per essere felici. L’anno scorso i Brasiliani, che da sempre amano le console SEGA, hanno messo in vendita una riproduzione FPGA del Neptune, ovvero Mega Drive più 32X.
Tanto per la nostalgia.
Nostalgia che ci regalò altre due forme del Neptune, oltre la sua incarnazione moderna in FPGA: un Pesce di Aprile che voleva il Neptune venduto a 50$ (prezzo infimo rispetto alla somma del Mega Drive e degli accessori) e Hyperdimension Neptunia, bizzarro gioco di ruolo in cui avvenenti fanciulle che rappresentano le console creare devono salvare il mondo di Gamindustri dalla malvagia strega Arfoire, che invece rappresenta i majikon, ovvero le cartucce usate per caricare sulle console giochi pirata e homebrew la cui protagonista è proprio l’incarnazione femminile di uno dei concetti più sciagurati partoriti da SEGA.
Dobbiamo ancora parlarne? I curiosi e i curiosissimi potranno leggerne tutto qui, e fu uno dei più grandi passi falsi di Nintendo. Una sordida storia di alienazione, spy story commerciali e amicizie diventate rivalità che riassumeremo in breve.
Ken Kutaragi, il futuro padre della PlayStation, era un impiegato SONY e un ottimo ingegnere che aveva convinto la casa madre a intrattenere ottimi rapporti con Nintendo. Aveva prodotto il chip audio del SuperNES e propose un add-on, nello stile del SEGA MegaCD, per dotare la nuova console del supporto per i dischi ottici di cui SONY era araldo, migliorando di moltissimo le capacità dei programmatori di giochi per la console dando un medium più spazioso.
Primo esemplare ritrovato dlla Nintendo Play Station, fonte ArsTecnica
Nintendo all’inizio accolse la parola di Kutaragi con scetticismo, finché Hiroshi Yamauchi, CEO di Nintendo, si convinse che SONY avrebbbe ottenuto i vantaggi maggiori e pensò bene di andare a trattare un migliore accordo con Philips, mandando a ramengo gli accordi con l’una e l’altra parte.
Eravamo già alle discussioni su un add-on da inserire nello slot cartucce del SNES e una console “consolidata” che sarebbe stata la Play Station, o PlayStation SFX-100.
Un amareggiato Kutaragi insistette con la vecchia guardia di SONY perché non fossero ripresi gli accordi con Nintendo e uscì con la sua PlayStation, con soli due protipi noti della SFX-100 disponibili nel mondo.
Square-Enix abbandonò le esclusive Nintendo proprio perché Secret of Mana (1993) e Chrono Trigger (1995), celebrati capolavori del genere fantasy, in realtà non furono che versioni castrate per andare incontro alle limitate facoltà del SNES liscio rispetto alla SFX-100.
Chrono Trigger, per la cronaca, ebbe una edizione PlayStation.
Se però l’accordo fosse andato avanti? In un possibile scenario semplicemente oggi non avremmo avuto la Playstation 5.
La SFX-100 avrebbe floppato e Nintendo sarebbe andata avanti con la Nintendo 64 dedicando a Kutaragi un “Eh, ma io te lo avevo detto” e strozzando sul nascere lo sviluppo di SONY Computer Entertainment.
In un altro possibile scenario però Yamauchi potrebbe aver avuto ragione e sarebbe stata Nintendo a fare la fine di SEGA, con SONY a inglobare le quote di mercato fino a ridurre Nintendo ad un partner di minoranza, e quindi non avremmo avuto la Switch 2.
Nel 1997 Panasonic si mise in testa di competere con SONY e sorpassarla.
Riprese il vecchio fallimentare progetto del 3DO, console creata a otto mani con LG Group, Creative Technology e Sanyo e lo portò nel millennio che sarebbe arrivato con un lettore DVD (cercando quindi di anticipare la PS2), PowerPC 602 dual core ed una fortissima estetica Cyberpunk
Ad origine avrebbe dovuto essere un’espansione per il 3DO, poi ne divenne coronamento e nuovo modello e infine zero: l’imprenditore statunitense Trip Hawkins annunciò mestamente che il mercato ed il mondo non erano pronti per l’M2, come non erano stati pronti per il 3DO, e che era stata tirata la spina al progetto.
Il Panasonic M2, fonte RetroAcademy
Con la versione più professionale, elegante e in legalese da CEO possibile dell’urlo “Mi avete sentito? Fate tutti schifo! Fate tutti schifo!!” del compianto Hulk Hogan in Rocky III.
Il Panasonic M2, o meglio la sua tecnologia, sopravvisse in alcuni giochi arcade.
La PlayStation avrebbe avuto un accanito concorrente: ma se Trip Hawkins aveva ragione, sarebbe stato il prezzo al dettaglio del prodotto ad esserne maggiore ostacolo.
In ogni caso la settimana scorsa un collezionista ha messo in vendita uno dei prototipi funzionanti.
Cliccate sul link se sentite di avere un portafoglio a fisarmonica.
Nel 1991 Atari sognava di tornare a competere con Nintendo e SEGA.
Abbiamo visto assieme il tragicomico fallimento del Jaguar: console con due processori a 32 bit “che se li sommi sono 64 e quindi facciamo 64 bit”, con un controller scomodissimo e pieno di tasti, e Tramiel Jr spintosi a minacciare di denuncia ai garanti SONY se avesse venduto la PlayStation a prezzi concorrenziali con la sua creatura.
Quello che rimase
Anche il Panther nacque a 16 bit per poi “diventare a 32”, così, a caso. Anche il Panther prometteva di essere “più potente della concorrenza”.
Ma Atari stessa decise di abbandonarlo per dedicarsi al Jaguar.
I gusci vuoti del Jaguar sono stati usati per farne macchine per ortopanoramiche. Secondo voi come sarebbe andata con due prodotti con le stesse identiche pecche?
Non è un errore: prima del GameBoy Advance Nintendo stava pensando al Progetto Atlantis.
Una console dal processore ARM710 e una durata di batterie pari a 30 ore, apparsa già in indiscrezioni del 1996, mentre Nintendo guardava al GameBoy Color.
Il GameBoy che non fu mai
Una console che avrebbe somigliato alle “console mini” giapponesi, quelle con piccoli emulatori, un GameBoy con quattro tasti sul frontale. Una serie di fattori tra cui il passaggio di Gunpei Yokoi, padre del GameBoy, a Bandai e la sua morte prematura, inserirono nel progetto il francese trapiantato a Tokyo Gwenael Nicholas, che diede al GameBoy Advance la sua impronta definitiva.
In questo caso è assai difficile dirlo: Atlantis era sostanzialmente peggiore, più scomodo e più pesante del GameBoy Advance, e molte funzioni di compatibilità col GameCube erano presenti invece per il Nintendo 64.
Probabilmente Nintendo sarebbe la stessa di oggi, ma considereremmo Atlantis uno dei flop.
Gli scrittori scrivono dall’esperienza, ma nel caso del Cyberpunk, uno dei suoi numi tutelari, William Gibson, non aveva mai usato un computer prima, ma il suo mondo era una complessa metafora per il dominio delle multinazionali e dell’industria.
Quello che in tempi moderni Varoufakis avrebbe chiamato, privandolo per sempre della magia, il TecnoFeudalesimo, il dominio delle corporazioni e delle Big Tech su dati ed economia.
Descrisse un oggetto usato da tutti gli hacker del suo mondo, il cyberdeck, probabilmente assimilabile al “Apple IIc vecchio e rotto” che dopo il 1988 divenne la sua nuova macchina da scrivere. In un’era di “trasportabili”, proto-portatili senza batteria o dalla batteria di durata risibile, valigioni col computer dentro, il Cyberdeck era un incrocio tra un Apple II, un Commodore 64 e un coltellino svizzero per hacker. Carichi programmi da vero hacker su cartuccia, colleghi i cavi al primo connettore ethernet e monitor che vedi, se non sensori e caschi per la realtà virtuale, e il Cyberspazio ti si apre.
Pondsmith, creatore della saga RPG di Cyberpunk si spinse oltre: nel suo mondo Apple non aveva mai creato il Macintosh 128K, preferendo continuare la linea Apple ad nauseam lanciando l’Apple IV GS
Non avremmo mai avuto 1984, il rivoluzionario ad girato da Ridley Scott dove una donna atletica armata di un maglio e una maglietta con il nuovo prodotto istoriato sul seno fiorente (l’atleta Anya Major) spaccava un monitor dal quale “i magnati delle Big Tech” annunciavano la grande era del Conformismo lanciando il nuovo prodotto Apple.
Possiamo anche abbracciare la tesi dell’attivista e scrittrice Rebecca Solnit e decidere che Apple è tutt’altro che anticonformismo indipendente e, oggi, Apple è a tutti gli effetti parte sia delle Big Tech che del “rassicurante conformismo”.
Cosa avremmo perso
Se pensi ad un cellulare, o pensi all’iPhone o ad un Android. Se pensi ad un computer è un PC o un Macintosh, non si scappa.
Ma se Apple non avesse mai tirato fuori il Macintosh non avremmo avuto Ridley Scott e Anya Major al SuperBowl.
I computer Apple non sarebbero diventati un fenomeno di costume, gli IBM compatibili avrebbero vinto a tavolino la seconda battaglia per il computer più diffuso e probabilmente oggi Apple non sarebbe il fenomeno di costume che è adessso.
Pico-8 è una Fantasy console, una console che esiste, come Z-machine, solo come concetto virtuale, una “console senza hardware” per creare giochi dal sapore retro.
E molti sono stati creati ad oggi. Puoi, comunque, “incarnarla” su Windows, MacOS, una distribuzione Linux su Raspberry Pi (magari in un Cyberdeck) o una delle miniconsoline con Linux che abbiamo citato, avendo a diposizione giochi retro del tutto legali e pagando un piccolo obolo all’autore della “console virtuale” per tenere vivo un sogno.
Il Pico-8
Pico-8 è stato infatti realizzato nel 2015 da Joseph “Zep” White, uno sviluppatore neozelandese che anni fa si trasferì a Tokyo e che con sua moglie aprì diversi anni fa un coffee shop chiamato Pico Pico Cafe. Per chi se lo stesse chiedendo, “pico pico” (ピコピコ) è il suono onomatopeico che i giapponesi usano per indicare gli effetti sonori dei vecchi videogiochi.
È moderno ma retro, un tool tra i tanti per insegnare le gioie della programmazione e per ricreare un’epoca di mille limiti e tanta fantasia. Non a caso i giochi del PICO-8 esistono come cartucce virtuali, piccole copertine in formato grafico PNG con un gioco codificato in forma di steganografia.
Come in passato, basta guardare l’adesivo (virtuale) per innamorarsi.
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