Femminicidio, l’origine della parola

In Italia, mentre scriviamo, si è compiuto l’ennesimo femminicidio. Intorno alle morti di Giulia Cecchettin, Ilaria Sula, Giulia Tramontano, Sara Campanella, Martina Carbonaro è sempre acceso un dibattito che arriva da una sola direzione: c’è chi, forse per un’inspiegabile assenza di spirito critico, persevera nella negazione di un problema di violenza di genere ancora troppo radicato nella società.
Di fronte alla parola femminicidio, infatti, non manca chi invoca il riconoscimento di un maschicidio quale violenza perpetrata nei confronti del genere maschile in quanto tale. Interviene, a tal proposito, Vittorio Feltri in un suo editoriale in cui risponde a un lettore al quale dice – in tono di rassegnazione – che probabilmente non si vedranno mai manifestanti “scendere in piazza in difesa del maschio vituperato” nonostante questo sia “oggetto e bersaglio di odio e di ferocia” che una non meglio precisata realtà riconoscerebbe come “opera buona e giusta”. Altri, sono gli interventi ora televisivi e ora radiofonici in cui la parola femminicidio viene liquidata ed estromessa a favore di una narrazione secondo la quale le donne vittime di violenza di genere altro non sono che il risultato dell’opera criminale di un pazzo. Esempi, questi, che necessariamente poniamo in apertura per fotografare una nota linea di pensiero.
Ma no, non siamo qui per una digressione su questo fenomeno sociale che inevitabilmente risulta divisivo solo per chi disconosce responsabilità e dati certi. Succede anche con il 25 aprile. Rimandiamo ai dati, e andiamo oltre. Quando e come nasce la parola “femminicidio”?

Foto di Michelle Ding su Unsplash
“Femminicidio”, una lezione del 1977
Ricerche filtrate e incrociate sul web ci portano alla tesi di laurea di Sara Porco dal titolo Il fenomeno del Femminicidio, AA 2012-2013, per il Politecnico di Milano. A pagina 36 troviamo la citazione di un articolo scritto dalla giornalista Maria Adele Teodori su Stampa Sera il 4 aprile 1977. La citazione riporta:
Ha ragione il movimento femminista a collegare ruolo della donna e sua oppressione allo stupro. […] Né menti malate né raptus, come ne parlano gli egregi difensori degli stupratori nelle loro fiorite arringhe; il potere virile si è sempre affermato, seppure per varie intensità di gradi, con la forza fisica. E la ribellione va punita. La lezione deve servire a mantenere la donna assoggettata. Oggi la guerra è più evidente perché la donna sfugge alla privatezza, vive maggiormente fuori dalle pareti domestiche: la violenza privata diviene così un fatto pubblico. La tortura quotidiana dello schiaffo, della percossa, dell’ aggressività parolaia sfocia nel massacro sessuale sui prati, sui sedili delle auto, in squallidi scannatoi di periferia. Ma il femminicidio quotidiano non avrebbe da solo raggiunto queste drammatiche proporzioni se non fosse sorretto e agevolato dalla violenza delle istituzioni nei suoi anche meno palesi messaggi.
La fonte citata, come già detto, è un articolo pubblicato da Teodori su Stampa Sera il 4 aprile 1977. Il riscontro esiste. Lo troviamo nell’archivio del quotidiano torinese sotto il titolo La tentazione del femminismo armato. Per chi ha curiosità e piacere, della rabbia femminista abbiamo parlato in un articolo che riportava un vecchio commento pubblicato da Lidia Ravera sulla rivista Muzak in cui l’autrice commentava il massacro del Circeo. Ora, torniamo a noi.
Sempre Maria Adele Teodori è autrice del libro Le Violentate, pubblicato nello stesso anno del suo articolo su Stampa Sera (il 1977) e nel quale fa nuovamente uso del termine femminicidio inteso nella sua accezione contemporanea, ovvero come atto criminale d’odio nei confronti di una donna in quanto tale.
L’Accademia della Crusca suggerisce, tuttavia, che un’attestazione del termine femminicidio precedente al contesto di Maria Adele Teodori si individua nel 1923, più precisamente a pagina 472 del volume 9 di Vita e Pensiero in cui si parla di un “truce delitto […] chiamato femminicidio commesso da un certo Pietro di Vicchio Fiorentino“.
“Femicidio”, 1801
Un altro studio sull’origine del termine femminicidio lo troviamo nel lavoro della criminologa Diana E.H. Russell. A pagina 27 del volume Strengthening understanding of Femicide è riportato che nel 1801 fu usato per la prima volta il vocabolo femicide (femicidio) a pagina 60 della pubblicazione The Satirical Review of London at the Commencement of the Nineteenth Century per indicare l’azione dell’uomo che costringe la donna al primo atto sessuale.
1992, la prima divulgazione
Riepilogando, dal 1801 (anno della prima attestazione della parola femicidio) al 1977 (anno in cui Maria Adele Teodori descrive il femminicidio come atto di violenza di genere nel suo libro Le Violentate e su Stampa Sera) passando per il 1923 (anno in cui troviamo la parola femminicidio in Vita e Pensiero) notiamo che il termine oggi in esame ha sporadicamente orbitato nel mondo della letteratura, della cronaca e dell’informazione.
Per trovare una collocazione più precisa e coerente con l’accezione oggi usata per indicare il più estremo atto di violenza nei confronti della donna dobbiamo spostarci nel 1992 e tornare, quindi, al lavoro della criminologa Diana Russell. In quell’anno, infatti, Diana Russell pubblica insieme a Jill Radford il libro Femicide – The politics of woman killing in cui il fenomeno viene illustrato come atto misogino conclusivo e mortale della violenza di genere, ma anche come fenomeno sociale.
Marcela Lagarde de Los Rios
Prestiamo attenzione: nella stampa del 1801 e nell’opera di Diana Russell e Jill Radford il termine usato è femicide, variante con lo stesso significato di feminicide ma linguisticamente differente. Servirà, a tal proposito, il lavoro dell’antropologa messicana e docente universitaria Marcela Lagarde de Los Rios che per raccontare la condizione delle donne in Messico ha coniato la parola oggi usata anche in Italia: femminicidio.
Lagarde de Los Rios, inoltre, ha indicato come sintomi del femminicidio anche tutte le tappe che portano al tragico epilogo, dunque la discriminazione, il sopruso, l’umiliazione e altri fatti di cui sono piene le cronache.
Conclusioni
La parola femminicidio, in Italia, ha orbitato sporadicamente tra il 1923 e il 1977 (intesa come violenza di genere, in questo caso), ma non faceva parte del lessico collettivo. In acque internazionali, invece, si ha una prima attestazione della parola femicide nel 1801 e in altri altrettanto sporadici documenti fino al 1992, quando Diana Russell e Jill Radford ne codificarono i lineamenti in termini di impatto sociale e politica nel libro Femicide – The politics of woman killing. In questo caso il femicidio era inteso soprattutto come l’uccisione della donna in quanto tale.
Nei primi anni 2000 Marcela Lagarde de Lor Rios ha dato una definizione più completa, usando la parola feminicidio poi estesa su tutte le cronache internazionali e intesa, infine, come tutte le fasi che precedono la morte della donna e non solo, quindi, come l’atto finale e definitivo che ogni giorno riempie le cronache.
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