Purtroppo alla fine è morto Fausto Gresini. La morte è arrivata anche per lui.
Ingenerosa, dopo due mesi di lotta con le conseguenze di una malattia da cui si era negativizzato i primi di febbraio ma che aveva duramente provato il suo fisico.
Un fisico duramente provato da una lunga malattia che alla fine ha ceduto, il dolore di un figlio che piange un padre che non tornerà a casa.
Ma anche di un intero team che perde un direttore, un manager e una guida. Il dolore dei fan che perdono il loro mito e la loro guida, il dolore di una famiglia.
Perché la morte non è mai qualcosa che riguarda solo chi non c’è più, ma costringe chi sopravvive alla presenza di un buco a forma dell’assente. Un buco che difficilmente può essere colmato.
Purtroppo dobbiamo ancora una volta registrare il risvolto negativo della vicenda. Sì, ancora più negativo della morte stessa.
La morte che arriva dopo una vita ricca di significato, di amore e di successi non dovrebbe essere solo dolore, ma anche raccoglimento e celebrazione. Il riunirsi intorno al ricordo di una persona amata per far vivere nel ricordo tutto quell’amore, tutti quei successi, tutta quella ricchezza.
Purtroppo, della morte di Fausto Gresini ricorderemo troppo a lungo il volto peggiore dell’umanità.
Ricorderemo una vicenda troppo simile a quella della morte di Li Wenglian, il “medico eroe” di Wuhan che combatteva tra la vita e la morte, in una perversa gara a chi arrivava per primo al necrologio che avrebbe avuto più diffusione mentre era ancora sul letto dell’agonia.
È una memoria sfregiata, è quel genere di giornalismo preventivo che nell’angoscia di arrivare primo allo scoop non si ferma neanche dinanzi alla morte.
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