1984: Arriva il Macintosh “classic” e cambia il mondo dell’informatica
Il 1984 per molti è ricordato come l’anno in cui è ambientato un noto romanzo di Orwell, abusatissimo dal mondo del complottismo. Ma è l’anno in cui il mondo dell’informatica è cambiato per sempre, per l’ennesima volta.
L’anno in cui è apparso il Macintosh 128K, all’epoca noto come il primo Macintosh della storia. Un computer che sì, lo sappiamo, posate i forconi, non ha inventato mouse e tastiera e non ha inventato il concetto di interfaccia grafica, ma li ha resi popolari portandoli al pubblico mainstream che poi saremmo diventati noi.

Seguendo la linea evolutiva tracciata con l’Apple II che di certo non aveva inventato l’Home Computer ma lo tolse dai garage e dalle “sale hobby” dei nerd per portarlo nelle case e nelle scuole al fianco del Commodore 64.
Riassunto delle puntate precedenti
Abbiamo già visto in un lunghissimo e recente articolo come Steve Jobs e Steve Wozniak reduci dall’esperienza dell’Apple decisero di passare al grado successivo, creare l’Apple II, il principio dell’Informatica industriale e mainstream, un computer “nato pronto” ed elegante, accessibile allo smanettone ma tarato sull’impiegato e sullo studente che avevano bisogno di un prodotto pronto all’uso.
L’Apple II sopravvisse più di quanto avrebbe dovuto, sotterrando i prodotti che avrebbero dovuto sostituirlo.
L’Apple III, suo designato successore, fu un tragicomico fallimento nato quando Apple, tra forma e funzione, decise per la funzione creando un prodotto inutilizzabile, privo di ventole per “non fare rumore” ma incline al surriscaldamento, con una scheda madre progettata per l’estetica e quindi affollata di piste troppo vicine e chip tendenti all’autoespulsione, costringendo la compagnia a dismetterlo per lanciare nuovi modelli del glorioso, solido e apprezzato Apple II.

L’Apple II, l’inizio della storia Apple II
Nel 1978, mentre lo sviluppo di Apple II era in corso, Steve Jobs propose a Xerox l’acquisto di un pacchetto di azioni della nascente Apple a prezzo di vantaggio in cambio della possibilità di studiare lo Xerox Alto, una workstation dotata di interfaccia grafica.
A questo punto una diffusa fake news accusa Jobs di aver “Plagiato Xerox e rubato la tecnologia per fare i Macintosh”: in realtà era tutto trasparente e alla luce del sole e dopo aver osservato l’Alto con attenzione, Jobs accusò Xerox di aver “sprecato una tecnologia grandiosa” e tornò a casa.
Mentre lo Xerox Alto languiva in centri di ricerca, università e uffici di Xerox, Jobs decise che una cosa intuitiva come un’interfaccia grafica era un bene troppo prezioso per lasciarlo in mano a nerd e smanettoni: mise quindi tutti a lavoro per creare un suo computer che avrebbe avuto una sua interfaccia grafica, trovando peraltro quella dell’Alto troppo ampollosa, tecnica e poco intuitiva.

L’Apple LISA, la “sorella maggiore” del Macintosh
Nel 1978 cominciò quindi lo sviluppo del LISA, acronimo/retronimo che si dice ispirato da Lisa Jobs, figlia Steve, tramutato in “Local Integrated Software Architecture” e, volgarmente in “Lisa: Invented Stupid Acronym”, ovvero “Architettura integrata col software” e “Lisa: uno stupido acronimo inventato”. Steve Jobs dichiarerà più volte che, ovviamente, Lisa Jobs era stata l’ispirazione, ma non poté godersi il progetto.
Tempo due anni, Jobs fu sbattuto fuori dal team di ricerca e sviluppo: nessuno è profeta in patria e le sue continue correzioni, tentativi di cambiare la direzione del progetto e imporre ad un gruppo che abbiamo visto essere passato da smanettoni da garage a imprenditori una visione ingegnerestica furono percepiti come la creazione di un ambiente “divisivo ed ostile”.
Sostanzialmente la tragedia del mettere alla porta qualcuno con una visione chiara, ma modi poco leziosi e conferenti per preferire imprenditori e yes men: il LISA arrivò sul mercato con la potenza rivoluzionaria di una interfaccia grafica, ma con un prezzo elevato, un’unità floppy integrata incline a problemi tecnici e un sistema operativo grafico, il LisaOS.
Steve Jobs però non stette con le mani in mano, e fino al momento in cui fu messo alla porta da Apple nel 1985 per tornare nel 1997 decise che avrebbe realizzato la sua visione come egli la desiderava.
Nasce il Macintosh
A questo punto della storia Jef Raskins stava gestendo un progetto parallelo a LISA: quello di un computer economico, utilitario, erede della visione dell’Apple II come computer utilitario.
Nella visione di Raskins il Macintosh avrebbe dovuto essere controllato solo dalla tastiera, con tasti funzione per accedere a diversi programmi (word processor, calcolatrice…), alternativi ad un sistema per cui, ad esempio, iniziando a scrivere un testo il Macintosh avrebbe proposto l’apertura del wordprocessor e premendo tasti numerici l’apertura di una calcolatrice.
Sistema pioneiristico, ma più pratico nella descrizione che nell’uso: Steve Jobs, allontanato dal team del LISA, prese il controllo dell’idea del povero Raskins facendo evolvere il progetto da un computer con interfaccia testuale destinato ad un pubblico più incline all’economia del LISA ad un vero e proprio computer con interfaccia grafica più affine alla sua visione di quello che il LISA sarebbe diventato.

Il design del Macintosh
Il team, stazionato alla Texaco Tower, che prendeva il nome da una pompa di benzina accanto, ci mise mesi solo per decidere che forma avrebbe avuto il prodotto finale, con Raskins che avrebbe voluto una forma simile a quella dei Trasportabili in stile Osborne 1, con una tastiera da agganciare e Jobs che insistette per la forma che associamo ormai da decenni al Macintosh, ovvero uno “scatolotto elegante” con monitor integrato e spazio per il floppy disk, con tastiera esterna.
Di passaggio in passaggio fu chiaro che il Macintosh non avrebbe più dovuto essere il fratello minore di LISA e competere con esso, ma l’evoluzione dei computer Apple e giocare nel nuovo derby dell’Informatica, un tempo la sfida tra Commodore, Apple e Tandy ed ora la sfida tra il mondo Apple e il mondo IBM PC Compatibili.

La tastiera dal Macintosh 128K
Il floppy disk da 5′ 1/2 fu sostituito da un’unità SONY da 3′ 1/4, il computer fu munito di un processore Motorola 68000 (fino al 2006 tutti i computer Macintosh usarono processori Motorola) da 7,83 Mhz, 128Kb di RAM e un monitor incorporato da 9 pollici in bianco e nero.
Se vi sembra poco, ricordate che siamo nel 1985, e l’alternativa erano computer come gli IBM compatibili, il Commodore Plus/4 e il (quasi arrivato) Commodore 128 e nessuno di loro aveva le capacità grafiche e il valore immaginifico del Macintosh.
Ovviamente c’erano il mouse e la tastiera: senza cursori, se Raskins odiava i mouse Jobs odiava le tastiere, e quindi fece in modo che chiunque avesse voluto usare il Macintosh avrebbe dovuto trovare il più scomodo possibile usare la sola tastiera.
Altresì, in un mondo dove i mouse avevano due o tre tasti fece in modo che il mouse del Macintosh, come quello del LISA, avesse un tasto solo.
E non è questo il tutto.
Arriva MacOS “Classic”
Brevissima digressione: in Giappone da decenni vige il fenomeno gijinka, ovvero immaginare oggetti di uso comune come se fossero esseri umani, perlopiù giovani donne di aspetto gradevole alla vista e intente in attività alquanto pornografiche (non fate domande, neppure io saprei rispondere e se lo sapessi rifiuterei).
In un manga ecchi (softcore erotico) dal titolo Buttobi CPU – I dream of Mimi, l’autore Kaoru Shintani, così, de botto e senza senso (cit) decide di raffigurare lo standard PC-98 (linea di PC tipica del Sol Levante) con le fattezze di una studentessa liceale vivace e sbarazzina (essendo lo standard PC-98 il più versatile, aderente al modello Small Office – Home Office), lo standard IBM-Compatibile con le fattezze di donne dall’aspetto maturo ma casalingo e introdurre come antagoniste/rivali/alleate controvoglia tre sorelle ispirate al Macintosh, raffigurate come figure antropomorfe eleganti e vestite di abiti e accessori lussuosi e con enormi problemi nel padroneggiare la lingua Giapponese (motivo dello sviluppo del PC-98 in Giappone fu proprio il supporto per gli alfabeti Giapponesi ritenuto dal pubblico medio inadeguato nei prodotti Apple e PC Compatibili dall’occidente).

La linea Macintosh secondo Buttobi CPU
Il Macintosh non era niente di tutto questo, anzi, le origini del Macintosh affondano nel bisogno di dare una linea “povera ed utilitaria” alla Apple del LISA.
Se Shintani avesse “fatto i suoi compiti” le “Sorelle Nac” (“Sorelle Mac” evitando di beccarsi una causa per violazione del diritto di autore) avrebbero avuto l’aspetto goffo e sorridente, da “eleganza di strada” della scultrice passata al design industriale per caso Susan Kare la madre delle icone moderne ritratta nel suo più iconico scatto in jeans, scarpe New Balance, felpona grigia e piedi sulla scrivania dove era poggiato un Mac.
Il LISA al lancio costava quasi 10k dollari dell’epoca, il Macintosh 2500 di cui 500 furono investiti nella massiccia campagna promozionale di lancio. Il LISA subiva ancora l’ispirazione dello Xerox Alto, interfaccia grafica ma per chi “sapeva dove mettere mani”.
Andy Hertzefeld, parte del Texaco Team nel momento in cui c’era da disegnare la nuova interfaccia si ricordò degli amici: l’allora 28enne Susan Hare era una scultrice, occasionalmente curatrice presso il Fine Arts Museums di San Francisco (FAMSF), dopo una carriera come artista freelancer, che continuò ad essere il suo sogno per tutta la vita.

Susan Kare in una sua iconica immagine
Ed era stata compagna di università di Hertzefeld, che sapendo che all’amica un posto fisso avrebbe fatto comodo la convocò per un colloquio con Apple, colloquio al quale la Hare era tragicamente impreparata.
In quel Susan Kare stava lavorando ad una scultura di un cinghiale a grandezza naturale, ma sapendo che il colloquio riguardava un posto da type designer e ammettendo di essere una capace artista, ma a digiuno della disciplina, si preparò studiando Type Design in Biblioteca fino ad avere abbastanza conoscenze da impressionare Apple.
L’operazione riuscì in più di un modo: Susan Kare ebbe il suo posto di lavoro e scoprì che ogni parte del suo curriculum precedente era una combinazione perfetta col suo nuovo lavoro.
In gioventù Susan Kare aveva studiato ricamo a fili contati: chiunque abbia mai creato un videogioco o pasticciato con la pixel art sa che il modo più efficiente per creare immagini è riempire una griglia, e fin lì la Hare ci arrivava.
Susan Hare quindi progettò font come il Chicago, usato nell’interfaccia utente di MacOS fino al 1997 e nei primi iPod e il Geneva, il Monaco e il San Francisco
Alcune delle icone di Susan Kare
Ma anche icone basate su una griglia 32*32 come il Dogcow (parte del font Cairo), il “cane pezzato” dal mantello simile ad una mucca (noto agli iniziati come Clarus) usato per identificare il verso di stampa nelle pagine di prova delle stampanti, e in realtà una buffa cagnolina il cui verso è “moof” (unione di un muggito e dell’abbaiare di un cagnetto).
Se il concetto di un font-raccolta di immagini come Cairo ha di fatto anticipato le Emoji (anche se esperienze come il PETSCII dimostrano che i dingbat font, i “font ornamentali” erano parte dell’esperienza informatica e mezzo per inserire immagini tra i testi, non è stata la prima creazione a diventare illustre.

MacOS Classic, prima versione, System 1.0
La Kare era anche una artista, e in quanto tale riusciva a trasformare i concetti in segni grafici stilizzati: oltre a Clarus il canemucca riuscì a congegnare simboli che tutt’ora conosciamo: il Mac Sorridente per segnalare un avvio riuscito, la bomba per segnalare un errore, il cestino dei rifiuti come rappresentazione grafica della cancellazione di programmi e file dal desktop, le icone di salvataggio e copincolla sono tutti frutti del tentativo di Susan Kare di rendere semplice e immediato quello che per molti era un mondo nuovo, ostico, freddo e aperto solo agli “iniziati”.
Per una frazione del costo, il Macintosh era diventato un concetto assai lontano da una primadonna vezzosa e altera, ma parte di un uso accessibile e consapevole.
Abbiamo visto come parte del costo del Macintosh fu dedicato al lancio pubblicitario, che avvenne con tutti i crismi.
Il lancio pubblicitario
Steve Jobs puntò per il lancio su un iconico spot dell’agenzia pubblicitaria Chiat/Day di Venice (Los Angeles), ideato da Brent Thomas con la direzione artistica di Lee Clow, diretto da Ridley Scott con un budget di 900k dollari.
Lo spot che non piacque affatto ai dirigenti, ma fu mandato al Superbowl per l’insistenza di Jobs e perché ormai rifarlo era impossibile vedeva una donna atletica armata di un maglio e una maglietta con il nuovo prodotto istoriato sul seno fiorente (l’atleta Anya Major) intenta a spaccare con un lancio secco un monitor dal quale “i magnati delle Big Tech” annunciavano la grande era del Conformismo lanciando il nuovo prodotto Apple.
Possiamo anche abbracciare la tesi dell’attivista e scrittrice Rebecca Solnit e decidere che Apple è tutt’altro che anticonformismo indipendente e, oggi, Apple è a tutti gli effetti parte sia delle Big Tech che del “rassicurante conformismo”, ma all’epoca di fatto il Macintosh fu presentato come un concetto di inaudita rottura rispetto all’informatica degli anni ’80, all’imperante standardizzazione della nascente era del PC Compatibile e prosecuzione del tema del computer come oggetto uscito dai laboratori e dai garage dei nerd per entrare nelle case di tutti.

Immagine di 1984
Il 24 gennaio del 1984 all’auditorium Flint del De Anza Community College Steve Jobs barò ulteriomente, mostrando all’assemblea degli azionisti un Apple Macintosh funzionante con un programma demo contenente una sua breve introduzione
«Ciao, io sono Macintosh. È proprio bello essere usciti da quella borsa!
Dato che non sono abituato a parlare in pubblico, vorrei condividere con voi una massima che ho pensato la prima volta che ho incontrato un mainframe IBM: non fidarti mai di un computer che non puoi sollevare!
Ovviamente io posso parlare ma ora gradirei sedermi ed ascoltare. Perciò è con grande orgoglio che vi presento un uomo che per me è stato come un padre… Steve Jobs!»
Ovviamente Steve Jobs stava barando, e il “Mac parlante” non era il Macintosh ma il prototipo del suo successore, il Macintosh 512k.
Il Macintosh 128K semplicemente non aveva abbastanza memoria per il suo piccolo discorso, ma fu una piccola bugia: a settembre 1984 anche il 512k sarebbe andato in commercio, diventando favorito rispetto al 128k per la sua maggior capacità di eseguire programmi
Il 128K rimase comunuque in vendita, come alternativa economica al 512K.
Cosa accadde dopo
Il Macintosh (il cui nome deriva dalla qualità di mele preferite di Raskins) col tempo superò il LISA (che dapprima ricevette emulatori in grado di far funzionare MacOS, e poi fu “ripiegato” nella linea produttiva del Macintosh a partire dal Macintosh XL, segretamente ma non troppo un LISA rimarchiato e l’Apple II, che per un certo periodo sopravvisse come scheda di espansione Apple II Card, da dare in pasto ad un computer Macintosh per continuare ad usare i programmi del vecchio Apple II e quindi vendere i Macintosh nelle scuole e nelle case di chi avrebbe voluto cambiare computer ma non dover ricomprare ogni programma.
Il Macintosh introdusse molte delle caratteristiche della Apple che tutti conosciamo: un linguaggio grafico iconico e peculiare ad esempio, e nel creare un aspetto da elettrodomestico comodo ed elegante un sistema di connettori proprietari col doppio scopo di rendere impossibile all’utente sbagliarsi e collegare il cavo sbagliato e fare in modo che l’esperienza Apple passasse dall’uso esclusivo di accessori Apple.
Nel tempo il Macintosh ebbe svariati modelli: il Macintosh II, il primo modulare (ovvero che tornava ad essere espansibile), il Quadra basato sul 68040, i PowerMac basati sul PowerPC, per arrivare agli attuali modelli in vendita.

Screen di MacOS attuale (Ventura)
Apple avrà il primo mouse con più di un tasto solo nel 2005, e di fatto solo con l’introduzione delle USB abbiamo reso mainstream lo spettacolo di computer Macintosh con mouse e tastiera da PC.
Steve Jobs fu di fatto allontanato da Apple un anno dopo l’arrivo di Macintosh, dimettendosi dopo aver visto i suoi poteri ridotti a causa di un muro contro muro col CEO John Sculley, che di fatto si riassunse in uno scontro “O se ne va lui, o me ne vado io”
Steve Jobs andò via, portandosi dietro Susan Kare nonostante un accordo con Apple gli impedisse di portar via dipendenti dalla ditta (Susan Kare e altri l’avevano seguito ai tempi delle dimissioni, quindi prima dell’accordo), e tornò nel 1997 per fondere la sua nuova ditta, Next, con Apple, e infondere nuova vita nei Macintosh passando da MacOS Classic all’attuale Mac OS X.
Mantenne il titolo di CEO fino quasi alla sua morte, sostituito negli ultimi mesi di malattia da Tim Cook, vedendo nella sua vita Macintosh diventare sinonimo di Apple e dimostrando come, anche nel mondo dell’informatica, vince chi tiene duro.
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