Su Instagram è presente un reel che lancia un allarme contro i capi d’abbigliamento in poliestere. Il video, condiviso migliaia di volte, sostiene che indossare tessuti sintetici sarebbe paragonabile a un avvelenamento quotidiano, con conseguenze devastanti sulla fertilità, gli ormoni e persino la temperatura corporea.
Lo studio citato presenta difetti metodologici talmente gravi da non poter supportare le conclusioni allarmistiche che vengono condivise.
La biancheria in poliestere crea problemi di fertilità per davvero?
Il fulcro dell’argomentazione si basa su uno studio pubblicato nel 2008 da Ahmed Shafik, un ricercatore egiziano, intitolato “An experimental study on the effect of different types of textiles on conception”. La sperimentazione ha coinvolto 35 cagne, suddivise in cinque gruppi da sette individui ciascuno. A ogni gruppo è stato fatto indossare, per 12 mesi consecutivi, un indumento intimo realizzato con materiali differenti: 100% poliestere, una miscela 50/50 poliestere-cotone, 100% cotone, 100% lana, oltre a un gruppo di controllo privo di indumento.
Secondo l’autore, otto cagne appartenenti ai gruppi esposti a tessuti contenenti poliestere avrebbero sviluppato bassi livelli di progesterone durante l’estro e non avrebbero concepito né dopo accoppiamento né dopo inseminazione. Cinque mesi dopo la rimozione delle mutande, i livelli ormonali sarebbero tornati nella norma e le cagne avrebbero concepito. Lo studio riporta inoltre la rilevazione di potenziali elettrostatici sulla pelle degli animali che indossavano tessuti contenenti poliestere (una scoperta presentata come centrale, ma tutt’altro che sorprendente).
Il primo problema da sottolineare è il protocollo sperimentale, che definire debole è un eufemismo. Far indossare per un anno intero mutande aderenti a delle cagne non simula in alcun modo l’uso reale dell’abbigliamento negli esseri umani. Si tratta di un contatto diretto, continuo e occlusivo sui genitali, una condizione che non ha nulla a che vedere con l’indossare una maglietta sportiva o un paio di pantaloni nella vita quotidiana.
Il campione è inoltre estremamente ridotto: 35 animali in totale, con effetti osservati in appena otto soggetti. Numeri del genere non consentono alcuna generalizzazione robusta, soprattutto in assenza di un controllo adeguato delle variabili confondenti. Fattori come temperatura ambientale, stress, alimentazione, condizioni di stabulazione e variabilità individuale del ciclo estrale possono influenzare significativamente i parametri misurati (che nello studio non vengono nemmeno presi in considerazione).
Non è un dettaglio secondario il fatto che il paper abbia ricevuto una correzione ufficiale nel settembre 2025 su un dato fondamentale in tabella 1, a quasi diciassette anni dalla pubblicazione originale, segnale evidente di gravi problemi sia nella metodologia iniziale che nelle conclusioni.
Inoltre, questo lavoro non è un caso isolato, ma rientra in una lunga serie di studi dello stesso autore, tutti concentrati sulla medesima ipotesi dell’elettricità statica e dei suoi presunti effetti sulla fertilità. Studi condotti su ratti, cani maschi e persino su volontari umani, sempre con risultati simili, e sempre senza alcuna replica indipendente da parte di altri laboratori.
In ambito scientifico, la replicabilità è un requisito fondamentale. Se il poliestere avesse davvero gli effetti drammatici descritti nel reel (e nello studio citato), considerando il suo uso massiccio nell’abbigliamento a partire dagli anni ’50 e la sua diffusione quotidiana su miliardi di persone, dovremmo osservare segnali chiari negli studi epidemiologici sulla fertilità umana.
Questo, semplicemente, non accade. Non esistono dati affidabili che mostrino un aumento di problemi riproduttivi correlabile all’uso di indumenti sintetici nella popolazione generale. Tra l’altro, abbiamo scoperto che lo stesso Shafik ha ricevuto nel 2016 un Ig Nobel Prize proprio per simili studi sui pantaloncini di poliestere. Gli Ig Nobel sono premi satirici assegnati a ricerche che “prima fanno ridere, poi fanno pensare”. Un riconoscimento che, per quanto divertente, chiarisce bene come questo filone di lavori sia considerato più una curiosità che scienza solida.
L’ipotesi meccanicistica proposta dallo studio è che i potenziali elettrostatici rilevati sulla pelle creino un “campo elettrostatico” capace di inibire la funzione ovarica. Qui entriamo letteralmente nel regno della fantascienza. L’elettricità statica generata dai tessuti sintetici è un fenomeno superficiale ben noto a tutti: quella piccola scossa quando si tocca una maniglia dopo aver camminato su un tappeto.
Si tratta di cariche elettriche che si accumulano in superficie e si dissipano rapidamente, non di campi elettromagnetici capaci di penetrare nei tessuti profondi e alterare processi biologici complessi come la produzione ormonale o l’ovulazione.
Per mettere le cose in prospettiva, se l’elettricità statica dei vestiti avesse il potere di alterare la funzione ovarica attraverso la pelle e il tessuto adiposo, allora i campi elettromagnetici ben più intensi a cui siamo esposti quotidianamente (dalle linee elettriche agli elettrodomestici) avrebbero effetti devastanti e immediatamente evidenti. Non è così. Il meccanismo proposto non ha una base fisica o biologica solida e contraddice ciò che sappiamo sulla penetrazione dei campi elettrici nei tessuti biologici.
Il reel elenca una serie impressionante di problemi di salute che sarebbero causati dal poliestere: infertilità, cicli irregolari, endometriosi, PCOS, bassi livelli di testosterone, ginecomastia.
Parliamo di condizioni mediche reali e complesse che hanno cause multifattoriali ben documentate: fattori genetici, alimentazione, esposizione a veri interferenti endocrini (come alcuni pesticidi e plastificanti), obesità, stress cronico, inquinamento ambientale. Attribuire tali patologie all’abbigliamento sintetico sulla base di uno studio su cani con mutande “permanenti” è scientificamente assurdo. Particolarmente fuorviante è l’affermazione che durante l’allenamento le “tossine entrino direttamente nel sangue”. La pelle non è una membrana porosa attraverso cui qualsiasi sostanza passa liberamente. È una barriera complessa e altamente efficace progettata per impedire l’ingresso di sostanze esterne.
Anche quando l’assorbimento transdermico avviene (ed è per questo che esistono cerotti medicati), richiede condizioni molto specifiche, formulazioni particolari e tempi prolungati. Non funziona semplicemente sudando con una maglietta addosso.
La soluzione proposta rivela la vera natura del contenuto: sostituire tutto con cotone biologico, lana merino e lino, con la frase finale “la fertilità non ha prezzo, il testosterone ottimale non ha prezzo”.
Esistono questioni legittime riguardo ai tessuti sintetici, ma sono molto diverse da quelle nel reel. La vera preoccupazione scientificamente fondata riguarda il rilascio di microplastiche durante il lavaggio, che finiscono nell’ambiente acquatico. Un’altra questione reale è la presenza di alcune sostanze chimiche usate nel trattamento dei tessuti, ma queste sono regolamentate e i limiti di sicurezza sono stabiliti proprio per proteggere i consumatori.
Quando si parla di BPA, PFAS e ftalati, bisogna distinguere tra la loro presenza in tracce (spesso ben al di sotto dei limiti di sicurezza) e un’esposizione significativa che possa causare effetti biologici. Per chi si allena regolarmente, le vere preoccupazioni dovrebbero riguardare fattori che hanno impatti reali e documentati: tecnica corretta degli esercizi, progressione adeguata dei carichi, recupero sufficiente, nutrizione bilanciata, idratazione, gestione dello stress.
La scelta del tessuto degli indumenti sportivi dovrebbe basarsi su criteri pratici: traspirabilità, comfort, durata, facilità di lavaggio e preferenze personali, non su paure infondate basate su studi mai replicati su cani con mutande permanenti.
In conclusione, questo reel rappresenta un caso emblematico di come informazioni scientifiche reali possano essere amplificate fino a creare allarmismo ingiustificato. Uno studio su 35 cani con condizioni sperimentali artificiose, mai replicato indipendentemente in quindici anni, con un meccanismo d’azione implausibile, viene trasformato in un allarme sulla salute umana.
La scienza richiede cautela, replicabilità, plausibilità biologica e prudenza nell’estrapolazione. Il bio-hacking da social media, evidentemente, no.
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