Editoriale

Parlare in corsivo e lo scontro generazionale ai tempi dei social

In questi tempi bellicosi di guerre e pandemia, l’Italiano medio trova sempre il modo di dilettarsi in scontri inesistenti, come la battaglia sul “parlare in corsivo”.

Una “challenge”, una delle sfide virali di Tik Tok, e osremmo dire tra le più innocenti e meno dannose. Anzi, decisamente più pacata e meno dannosa. Niente giovani che rischiano la pelle mangiando detersivo, arrampicandosi su precarie cassette per bibite o facendosi sgambetti per gioco aspettandosi la caduta più rovinosa.

In questo caso la sfida è decisamente “Made in Italy”: nasce tutto dal “corso” di una TikToker, figura a metà tra il vlogger, l’intrattenitore e il produttore di contenuti, che spiega come “parlare in corsivo”.

Ovvero come usare quel particolare accento querulo e dal tono un po’ lamentoso tradizionalmente attribuito alle annoiate ragazze della borghesia meneghina alta. Accento ottenuto strascicando le vocali e mantenendo un timbro vocale alto, quasi in falsetto, esageratamente lezioso e femminile, al confine dell’incomprensibile.

Video molto divertente e carino a suo modo, preso per quello che è: un video carino e divertente senza alcuna pretesa di insegnare alcunché se non come farsi una risata. Se non lo linkiamo direttamente non è per critica verso il contenuto ma perché siamo sui social.

E vi lasciamo immaginare cosa la creatrice del video abbia dovuto leggere in questi giorni, anche se fosse andata a pescare su altri social meno “giovanili”, come Twitter e Facebook.

Simili contenuti esulano dal nostro scopo, ed anche dall’umana decenza, va detto.

Parlare in corsivo e lo scontro generazionale ai tempi dei social

Potremmo discutere all’infinito sulle origini e finalità del parlare in corsivo, e c’è anche chi l’ha fatto.

Un simile accento appare spesso nella musica: c’è chi l’ha trovato nei pezzi di Blanco, ma del resto anche il Paolo Bitta del comico Paolo Kessisoglu quando imita i Pooh lo fa strascinando le vocali, trasformando il ritornello di “Uomini soli” in “Diiooou delleeee citttaaaahh, e delle immeeeensitaaaaaaaah!”.

Alcune ragazze altrettanto giovani hanno provato a spiegare che parlare in corsivo viene usato volutamente per scherzo, come bonaria presa in giro e comunque per una risposta rapida e senza pretesa di instaurare un’intera conversazione discutendo come una via di mezzo tra Paolo Bitta e un’ereditiera vintage da commedia Italiana.

Ma il punto è che, citando il gergo giovanile, perché ridursi a “cringiate”, ovvero a imbarazzantissimi dibattiti basati sul “Ai miei tempi” e “Tanto voi non ci capite”?

Da sempre, sottolineo da sempre ogni adolescente ha cercato con ogni mezzo di rivendicare una sua identità. Anche col senso dell’ironia.

Essere adolescente ieri

Per un giovane “una battuta che capisco solo io” non è una brutta battuta. È qualcosa di unico, che condivide solo con persone a lui o lei affini per età ed esperienze, che fa parte di un senso di comunità.

Negli anni ’80 i Paninari avevano un gergo ed un vestiario tutto loro. Una vera uniforme, una vera “subcultura nella cultura” che gli serviva per “strappare” dai Matusa.

Non erano più bambini, ma neppure adulti. Per gli adulti in quel punto della tua vita non sei ancora niente: se sei un adolescente sai che qualcosa lo sei.

Non sei sull’altra riva del fiume, ma ormai la riva dell’infanzia ce l’hai alle spalle. Stai guadando e non sai neppure quando e se arriverai dove sono i tuoi genitori.

E non sai neppure se ti piacerà. Quello che puoi fare è rivendicare con forza quel qualcosa. Crei un tuo linguaggio espressivo, ridi alle tue battute, costruisci un bagaglio di esperienze.

Negli anni ’80 potevi montare in sella ad una Zundapp e mangiarti un “burger al brucioschizzo troppo giusto” dal Burghy, evitando le risse del Ciaina e felice dell’amplification che ti faceva rivedere a Drive-In i Matusa che, parodiandoti, riconoscevano la tua esistenza.

Negli anni ’60 impazzava la “Beatlesmania”: giovani in tutto il modo che idolizzavano i “Fab Four”, assumendone mimica, gestualità e il traghettare dall’immagine da bravi ragazzi “puliti e rispettosi” al movimento hippy.

Una generazione cresciuta nel mito di Sinatra (e che ironicamente ma non troppo non ne erano meno rapiti) non comprendeva come i loro figli potessero agire in modo così diverso, sognando un mondo così diverso e rivendicandolo volendo a tutti i costi essere “diversi” dai loro genitori.

E possiamo andare nel passato, di epoche in epoche, di generazione in generazione, fino a scoprire che per gli antici Greci, da Esiodo in poi l’età dell’Oro era sempre quella dei nonni, e l’età dei degenerati era sempre quella dei nipoti.

Essere adolescente oggi

Il Parlare in Corsivo ci dimostra che non è cambiato il genere umano: è cambiato il contesto in cui il genere umano esiste. I mugugni che l’adulto aveva in casa davanti all’adolescente che “parlava strano”, improvvisamente “non era più un bravo bambino”, ma neppure un adulto fatto e finito come lui, pronto a perpetuare la sua vita dal punto in cui la pensione l’avrebbe interrotta ora escono dalle case.

I giovani hanno i social, i loro genitori hanno i Social. I giovani si riuniscono sui Social per cercare di staccarsi dai genitori, i genitori li inseguono sui Social per lanciargli addosso quel disappunto e quel disprezzo.

Ignorando di star ripetere un eterno balletto che non avrà mai fine finché non finirà la razza umana.

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