NOTIZIA VERA Violenza sessuale di gruppo su bambina di 13 anni a Melito Porto Salvo

Sono tutte vittime, anche i ragazzi.
E poi, io credo che certe volte il silenzio
sia la risposta più eloquente.

Padre Domenico de Biase,
sacerdote.

Purtroppo corre voce che questo non sia un caso isolato.
C’è molta prostituzione in paese.

Don Benvenuto Malara,
parroco.

Sono vicina alle famiglie dei figli maschi.
Per come si vestono, certe ragazze se la vanno a cercare.

Una abitante di Melito Porto Salvo.

 

Era l’alba del 2 settembre 2016 quando scattava l’operazione “Ricatto” dei Carabinieri. Ancora una volta le cronache si ritrovavano a parlare di “branco”, con la notizia dell’arresto di 7 ragazzi, accusati di «violenza sessuale di gruppo aggravata, atti sessuali con minorenne, detenzione di materiale pedopornografico, violenza privata, atti persecutori e lesioni personali aggravate». Su richiesta del procuratore Federico Cafiero de Raho e del procuratore aggiunto Gaetano Paci, venivano arrestati Daniele Benedetto, Pasquale Principato, Michele NuceraDavide SchimizziLorenzo Tripodi, Antonio VerduciGiovanni Iamonte. Diverse le disposizioni per un diciottenne che, all’epoca dei fatti, era ancora minorenne, mentre per Mario Domenico Pitasi si disponeva l’obbligo di presentazione.

Ci ritroviamo a ricordare questa orribile vicenda perché oggi, 21 settembre, i nostri lettori ci segnalano un post pubblicato nelle ultime ore da un profilo Facebook:

Violenza sessuale di gruppo su bambina di 13 anni a Melito Porto Salvo (Calabria). Nomi e foto “dei” stupratori difesi da una parte dei loro paesani. Guardali in faccia, tu che li difendi non sei diverso da loro.

Il post è accompagnato dalla didascalia: «Caro ministro, come vedi non sono stranieri, bensì italiani», in un chiaro riferimento a Matteo Salvini per protestare contro la sua politica sull’immigrazione e contro il facile accostamento che molti utenti operano tra l’atto ignobile dello strupro e la presenza di cittadini stranieri nel Paese.

Giovanni Iamonte, l’ultimo in basso a sinistra, era il secondogenito del boss della ‘ndrangheta Remingo Iamonte, attualmente detenuto. Oggetto delle brutalità inflitte era una ragazzina di 13 anni, costretta a subire violenze e ricatti per due anni dall’intero branco.

Gli orrori

Nell’estate del 2013 la minorenne conobbe e si innamorò di Davide Schimizzi. I due iniziarono una relazione sentimentale che però, dopo due settimane, si rivelò un vero e proprio incubo. Schimizzi pretese da lei di fare ciò che lui ordinava come prezzo del “perdono”, per esser restata lontana da lui per un breve periodo. Ciò che lui ordinava, in sostanza, era di concedersi a suoi amici. Non bastò, perché Schimizzi le fece scattare dei selfie compromettenti, per renderla ancora più ricattabile. Giovanni Iamonte fu il primo ad accogliere la proposta di Schimizzi di unirsi in incontri sessuali di gruppo con la ragazzina. In seguito si sarebbero uniti gli altri.

Le violenze si consumarono dal 2013 al 2015. Per un breve periodo, la 13enne aveva chiuso la relazione con Schimizzi dopo aver conosciuto Mario Domenico Pitasi, ma il branco andò in spedizione punitiva per riappropriarsi, letteralmente, della ragazzina.

Davide Schimizzi, inoltre, era fratello di un poliziotto, Antonino. Quest’ultimo aveva dispensato consigli per difendersi durante gli interrogatori, come emerse da un’intercettazione:

Allora tu in ogni qualsiasi caso ti chiamano, tu vai e dici io non mi ricordo niente! Perché no! Gli devi dire che quando mi chiamate in giudizio poi ne parliamo, adesso a titolo informativo non vi dico niente! E scrivete quello che volete! Non ho nulla da dichiarare! Esattamente così! Così gli devi dire! Davide non fare u stortu, così gli devi dire, perché altrimenti ti fanno fare, ehm ti danno un’altra cosa, tu non gli dire niente, perché se gli dici qualcosa fanno un’altra cosa loro, capito? E poi rompono i coglioni!

Come riportava Giornalettismo nel gennaio 2018, anche Antonino Schimizzi avrebbe approfittato della ragazzina e, per quei consigli dispensati al fratello, il Consiglio di disciplina lo destituì da poliziotto. Antonino ricorse al Tar della Lombardia e vinse: durante il consumo dei rapporti con la ragazzina non era ancora poliziotto, bensì si trovava nell’esercito.

Il branco aspettava la ragazzina all’uscita di scuola e la portava nei luoghi appartati per perpetrare le violenze.

L’omertà

Dall’ordinanza firmata dal gip Barbara Bennato emerse, tra le 133 pagine, che la famiglia sapeva delle violenze, ma taceva per paura di discredito. Il padre, solamente, andò dalla famiglia Iamonte a lamentarsi, ma non ebbe mai intenzione di denunciare. È di questo gennaio, però, una deposizione del padre durante il processo: voleva denunciare, ma sia la figlia che la moglie gli consigliarono di evitare. La madre aveva scoperto le violenze dalla brutta copia di un tema che la figlia aveva lasciato nella sua camera. Lo raccontò la stessa vittima alla psicologa:

Un giorno a scuola la mia professoressa d’italiano ci dà un tema dove dovevamo parlare del ruolo che avevano avuto i nostri genitori nella nostra vita. Ed io che nonostante non abbia detto niente per proteggere anche loro ero arrabbiata perché comunque loro non se ne sono mai accorti di niente. Di giorno in giorno non se ne sono accorti proprio di niente. Quindi ero un po’ arrabbiata con loro di questo perché comunque come fai a non accorgertene che tua figlia sta attraversando un periodo difficile, una difficoltà, niente completamente.

Nonostante le rivelazioni, la madre decise di non denunciare.

È dunque notizia vera che quei volti appartengano agli stupratori di Melito Porto Salvo, che dal 2013 al 2015 violentarono in gruppo una ragazzina.

 

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