Ieri, 10 Dicembre 2025, ci ha lasciati Sophie Kinsella, all’anagrafe Madeleine Sophie Townley.
Per un momento ho creduto fosse l’ennesima morte inventata dai social, una di quelle notizie che corrono troppo veloci per essere vere. Poi le conferme sono arrivate, e non c’era più nulla da smentire.
Una notizia ancora più tagliente del previsto: non certo perché non sapessimo che stava combattendo contro una battaglia difficilissima, ma perché certe presenze, seppur invisibili, ci si attaccano addosso senza fare rumore.
Come la voce amica che ritrovi quando apri un libro.
Le sue protagoniste imperfette, ansiose, sopra le righe, capaci di cacciarsi nei guai con una leggerezza che nascondeva la più dura delle verità – quella che tutti, prima o poi, ci sentiamo un disastro ambulante – ci hanno accompagnati in un’epoca in cui nessuno sapeva ancora dare un nome alle nostre fragilità.
E lei, con un talento raro, riusciva a farcele attraversare ridendo.
Addio a Sophie Kinsella, autrice che ha rivoluzionato la commedia al femminile
Sophie, di libri ne ha scritti circa una trentina, tuttavia nella sua produzione prolifica è stata Becky Bloomwood a brillare come il suo personaggio più celebre: l’eroina che a colpi di Visa ha trasformato la saga di “Shopaholic” in un bestseller internazionale e lei in un vero e proprio marchio letterario, con ben dieci titoli destinati alla collana.
Io lo ricordo bene il mio primo “I love shopping”, preso in biblioteca a causa delle mie ridotte finanze di studentessa. E più lo leggevo e più rosicavo per non potermi permettere il lusso di cui compulsivamente si parlava, ignorando inizialmente la potenza del messaggio racchiuso tra le righe: ero troppo giovane per capire la metà delle cose, eppure avevo l’impressione di essere cresciuta improvvisamente. Non per il glamour, non per i negozi, non per l’ironia, ma perché tra le righe c’era una donna che diceva una cosa rivoluzionaria per quegli anni: si può sbagliare e non essere sbagliati.
Gli anni duemila, erano anni in cui “l’età adulta” di “Sex & the city” suonava ancora distante dalle abitudini e dallo stile di vita di una qualunque ventenne di provincia dell’epoca.
Dopo il diploma, avevo deciso di prendermi un anno sabbatico che avrei usato per fare esperienze di lavoro all’estero.
Mi serviva però una meta più vicina rispetto alle vicende di Carrie Bradshow nella grande mela per sognare e la Kinsella a questo, si prestava perfettamente: gran parte dei suoi romanzi erano infatti ambientati a Londra, due ore di aereo da casa mia.
Fu lì che decisi di andare.
Avevo già “all’attivo” sette suoi romanzi celebri che ormai facevano bella mostra di sé nella mia libreria. Conoscevo gran parte dei posti da lei menzionati perché ci vivevo, ci lavoravo e decisi di fare un vero e proprio “tour” delle tappe principali della protagonista dei suoi romanzi.
Mi trovavo lì, quando uscì “I love shopping per il baby” e ricordo di averlo ordinato in italiano in una libreria di London Bridge: una piccola ostinazione da lettrice affezionata, incapace di rinunciare alla voce originale con cui avevo conosciuto Becky Bloomwood e – forse- un modo come un altro di sentirmi meno lontana da casa.
Le sue storie parlavano di autostima e pressione sociale, con la voce di protagoniste alla ricerca ostinata di un equilibrio che lei rendeva possibile. Iniziavano come letture leggere e si riempivano di situazioni grottesche non tanto distanti dalla realtà che ti facevano sentire in qualche modo”compresa” e meno fuori dal coro.
Era come riconoscere le proprie insicurezze ancor prima che sapessimo come chiamarle. E, soprattutto, erano romanzi capaci di strapparci risate proprio nei periodi in cui avevamo dimenticato come si facesse a ridere.
E poi, aveva quella capacità di andarti a genio perché non ti parlava dall’alto ma ti sedeva accanto dicendoti: “Sì, sei un disastro, ma sei anche luminosa. Sì, hai paura, ma continua a provarci.”
Come accadeva con Becky, giornalista finanziaria affetta da una compulsione irresistibile per lo shopping di lusso, riusciva a farti vedere come perfino il tuo peggior difetto potesse trasformarsi in un talento, o almeno in qualcosa che non meritava vergogna.
E non mi sembra una cosa da poco al giorno d’oggi.
Ma Sophie non era solo madrina di fortunate Cenerentole moderne: tradotta in più di 40 lingue e letta in oltre 60 paesi, ha raggiunto un pubblico globale che andava ben oltre le cerchie della chick-lit, trasformandosi in un riferimento internazionale della narrativa pop al femminile.
Uno dei suoi lavori più recenti, What Does It Feel Like? (2024), ispirato alla malattia contro cui stava combattendo, è stato inserito tra i 100 libri più notevoli dell’anno dal New York Times ed è valso all’autrice una candidatura come “Autrice dell’anno” ai British Book Awards 2025.
Un riconoscimento che non celebrava soltanto la sua capacità di intrattenere, ma la profondità e l’onestà con cui, negli ultimi anni, aveva scelto di raccontare anche la parte più fragile della sua esperienza.
Per chi è cresciuto con lei, il mondo da oggi sembra un po’ più adulto e, diciamolo, anche un po’ più silenzioso.
E allora, più di ogni altra cosa, questo vuole essere un ringraziamento.
Grazie, Sophie, per averci tenuto compagnia nei tratti più incerti della strada.
Per aver reso lieve ciò che pesava.
Per averci fatto sentire viste, comprese, persino brillanti, proprio quando pensavamo di valere meno di ciò che eravamo.
E ora, va’ Sophie e mostra agli angeli il fuorigioco con un tacco dodici di Loboutine ai piedi.
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