PRECISAZIONI DISINFORMAZIONE L’esperimento di Church: quei topolini disposti a morire di fame per non infliggere dolore ai propri simili – bufale.net

di Shadow Ranger |

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PRECISAZIONI DISINFORMAZIONE L’esperimento di Church: quei topolini disposti a morire di fame per non infliggere dolore ai propri simili – bufale.net Bufale.net

Ci segnalano i nostri contatti un articolo relativo all’esperimento di Church

È un topolino minuscolo, impaurito e molto affamato quello che vive in un piccola gabbia nel laboratorio per esperimenti del dottor Russel Church, ricercatore della Brown University.

La piccola cavia, X, ha veramente bisogno di mangiare, è da parecchio tempo che digiuna. Lui lo sa come procurarsi il cibo, lo sa che basta premere una leva per far scendere l’agognato premio che servirebbe a riempirgli la pancia. In fondo è stato concepito e addestrato per questo.

È molto intelligente, come tutti quelli della sua specie, e ci ha messo poco a capire il meccanismo della gratificazione: l’unico modo per ottenere da mangiare è tirare la stramaledetta leva. Eppure non lo fa, da diversi giorni non mette niente in bocca. Il congegno non è cambiato ma lui quella leva non la vuole proprio tirare.

Il fatto è che, in una gabbia adiacente alla sua, hanno piazzato uno come lui, Y, un topolino piccolo e spaventato, le cui zampette esili poggiano su una griglia elettrizzata. Ed ogni volta che X tira la leva una violenta scossa elettrica attraversa il reticolato posto ai piedi del suo vicino di cella e lo fa ballare sui carboni ardenti.

X ci ha messo poco a fare la connessione, a dedurre che la leva per lui è salvezza mentre per Y è morte. E ha deciso di non tirarla più, che è meglio crepare di fame piuttosto che vedere e sentire il suo compagno di prigionia contorcersi dal dolore, piuttosto che è essere l’esecutore materiale di quella sofferenza.

E tutto ciò nonostante X, non abbia mai visto prima quell’altro topolino, non ne conosca l’odore, non gli sia familiare alla vista. Entrambi sono nati in cattività, destinati ad essere cavie; non immaginano la vita della colonia, forse non hanno mai nemmeno socializzato con un loro simile, sicuramente non sono mai stati liberi ne lo saranno mai.

Eppure X ha dentro una forza che gli dice di non premere quella leva, di non infliggere quel dolore, costi quel che costi, perché è sbagliato, perché è immorale, perché prova empatia per quell’essere come lui, e diverso da lui, che combatte e soffre per vivere.

X non lo sa, ma lui non che l’ultimo di una serie di cavie, tutte sottoposte allo stesso crudele esperimento, che si sono rifiutate di tirare quella leva, in nome della propria natura, del proprio istinto, della propria volontà di esercitare quella libertà che non hanno mai avuto.

Il problema di questo articolo è sempre lo stesso: anche un evento storico corretto e realmente avvenuto, se interpretato in una maniera incline al sentimentalismo, viene contorto e piegato perdendone in precisione, da cui il nostro uso del doppio tag.

L’intero testo rilegge l’esperimento di Church con una forte dose di antropomorfismo, cedendo quindi alla tentazione di attribuire agli animali parole e pensieri umani.

Molto disneyana dobbiamo dire, del resto se Topolino è un topo parlante con una casa di proprietà, un lavoro come scrittore e detective part-time ed una fidanzata della sua stessa specie, dobbiamo credere che un topo abbia processi mentali equipollenti a quelli umani.

Ma non è così.

Partiamo dall’esperimento: effettivamente, e questo è corretto, si svolgeva nei modi descritti, ancorché al netto di svariate ideazioni per il pathos

Un roditore veniva messo in una gabbietta, con accanto un altro roditore. Il primo roditore veniva istruito a compiere operazioni per ricevere del cibo premiale, l’equivalente dei premietti quindi, i biscotti che dai ad un cane quando ha eseguito un comando correttamente.

Prima fantasia drammatica: parlare di topi affamati costretti a tirare una leva per mangiare  è come asserire che il ragazzino sotto casa con un bastardino dall’aria vivace al fianco e la tasca piena di biscotti che elargisce un biscottino ogni volta che il suo amico a quattro zampe obbedisce al comando “siedi!” sollevandosi sulle zampine posteriori o “seduto” sedendosi di scatto sia un aguzzino che ha affamato un povero cane negandogli altro cibo se non i biscotti che ha in casa.

Semplicemente, il cibo è un potente strumento di gratificazione e, semplicemente, una cavia ridotta alla morte per fame sarebbe semplicemente un modo per falsare ogni esperimento.

Inoltre, scopriamo che il risultato dell’esperimento era leggermente difforme da quanto descritto

Tradurremo un’analisi dello stesso tratta da Neuronal Correlates of Empathy: from Rodent to Human

Nel 1959 Russel Chuch, psicologo alla Brown, osservò che i ratti rinunciano alla possibilità di ottenere cibo piuttosto che infliggere dolore ad altri ratti (Church, 1959). In questo esperimento, i ratti furono addestrati a premere una leva per ottenere una ricompensa in cibo. Dopo aver appreso ciò, fu aggiunto un ulteriore colpo di scena: se i ratti avessero premuto la leva, avrebbero ottenuto la loro ricomensa, ma un esemplare della loro stessa specie, a loro visibile, avrebbe ricevuto uno shock elettrico. I ratti smisero di premere la leva. Inoltre, i ratti che avevano già subito la scossa si fermavano per un tempo superiore agli altri. I risultati apparvero chiari, e Church li interpretò come la prova dell’empatia nei ratti.

Ma, come sempre nella scienza comportamentale, non esiste una sola spiegazione e

Tale studio fu accolto con critiche e controversie, perché un’interpetazione altrettanto possibile postulava che i ratti si stessero semplicemente bloccando per paura assistendo al dolore di un altro ratto. I ratti dello studio di Church non avevano di fatto compiuto alcuna azione a beneficio di un altro ratto. Inoltre molti ratti restavano immobili solo per pochi secondi, decorsi i quali tornavano a premere la leva, scosse elettriche e tutto. Lo studio di Church non ebbe comunque un forte impatto, non solo per questi problemi metodologico, ma perché il campo di indagine, intriso del comportamentismo Skinneriano, non era recettivo all’idea che i ratti provassero emozioni.

Lo studio di Church aveva infatti provato qualcosa che per l’epoca non era affatto scontato, anzi assai innovativo: i ratti provano emozioni, i ratti comunicano emozioni, i ratti riconoscono le emozioni reagendo alle stesse.

Sanno quindi che un loro esemplare è terrorizzato da un pericolo, e reagiscono al pericolo. Gli manca però, al contrario di quanto insinua l’articolo, la capacità di astrazione tipica del pensiero umano, ed infatti il più delle volte, cessato lo stimolo “nocivo” (le urla) tornavano a manipolare la leva per la gratificazione immediata.

Si provò ad effettuare esperimenti simili per rimuovere ogni dubbio: ma gli stessi non riuscirono a risolvere il mistero, aggiungendo a domanda altre domande

Nel 1962 si provò un diverso esperimento: un ratto era legato ad un’imbracatura e sospeso a mezz’aria, esperienza sconcertante che stimolava in questo l’istinto a lamentarsi rumorosamente. Un secondo ratto veniva istruito ad interagire con una leva che avrebbe liberato il primo roditore: il roditore era motivato a liberare un suo simile, ma non a liberare un blocchetto di polistirolo delle stesse dimensioni.

Ciò provava nei ratti il bisogno altruistico di aiutare un proprio simile? No, perchè un successivo esperimento sostituì il ratto prigioniero con una registrazione di un ratto prigioniero oppure del rumore bianco a tutto volume, ottenendo che i ratti comunque agivano sulla leva.

Sostanzialmente, obiettarono Lavery e Foley, i ratti non volevano aiutare un loro simile per il quale provavano un dolce sentimento di comunanza ed amicizia: volevano che la smettesse di urlare disturbandoli, come avrebbero fatto per eliminare ogni fonte di rumore sconcertante.

Al momento l’empatia animale è ancora un ricco campo di studio, che ci darà in futuro molte risposte: ma queste risposte non possono passare da una forzosa umanizzazione dell’animale. Dobbiamo imparare a capire gli animali coi loro tempi, coi loro modi e rispettando la loro natura animale, senza imporre loro una sovrastruttura ricca di emotività umana e più adatta alla viralizzazione che alla divulgazione.

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